Quando l’esercizio della memoria è atto dovuto, consente di agguantare il presente, delineare un futuro più consapevole, risarcire, rinominandoli, fatti trascorsi il cui significato rischierebbe di restare troncato. Col rigore dello studioso, l’agilità del giornalista, l’occhio amorevole di chi nella propria esperienza ha avvertito l’irrinunciabilità della testimonianza, Francesco Lepore attua pienamente il potere della memoria col suo Il delitto di Giarre. 1980: un ‘caso insoluto’ e le battaglie del movimento Lgbt+ in Italia (Rizzoli, pag. 189, euro 17).

Il 31 ottobre 1980, nel paese siciliano vengono ritrovati i cadaveri, “quasi abbracciati, mano nella mano”, di Giorgio Agatino Giammona e il suo zito (fidanzato, in dialetto siciliano) Antonio Galatola, detto Toni, scomparsi due settimane prima. Il fatto delittuoso ci viene restituito attraverso l’analisi del profilo biografico dei giovani fidanzati, del contesto sociale della Giarre del 1980 e, più in generale, della Sicilia di quegli anni, delle reazioni (o meglio, del deficit di reazioni) da parte di società civile, polizia, magistratura.

Il libro di Lepore non soltanto ci cala in quel contesto – ne tocchiamo la vischiosità, la pesantezza, la compatta omertà – ma anche, e soprattutto, ci fa cogliere, con l’occhio della storia della militanza Lgbt+ in Sicilia e in Italia, quanto quell’evento (rubricato prima come suicidio, poi come omicidio- suicidio a dispetto degli indizi emersi) abbia gettato il seme dell’organizzazione della militanza gay e trans in Italia. Tre aspetti colpiscono in special modo in questo percorso della memoria che legge le radici del presente: innanzitutto la testimonianza forte e toccante di Paolo Patané, già presidente Arcigay, nativo di Giarre e al tempo del delitto tredicenne. “Confesso che allora, ogni qualvolta li vedevo avviarsi su quella strada, pensavo che loro cercassero un luogo e un momento per vivere una qualche intimità”.

Questa ricerca di vita libera e dignitosa li ha quindi condotti a morire: terribile, e irredimibile. Colpisce poi lo sforzo di tenere separato ciò che anelava all’unione: anche da morti, Giorgio e Toni non ricevono un unico funerale (nelle parole dell’allora parroco, quello “poteva anche essere una forma di riconciliazione”), e sulle loro tombe vengono iscritte due diverse date di morte. Questa forzosa separazione discende ulteriormente, forse ancor più gravemente, dalla negazione della realtà: mi ha ricordato una certa attitudine autoassolutoria italiana e sudista la frase dell’allora sindaco di Giarre, Nello Cantarella, per il quale “Giarre è una città tollerante. Omosessuali ce n’è qui, come altrove. Li incontro per strada, mi salutano, li saluto”.

Un aspetto finale riguarda il potere. Da un lato la politica, quasi interamente sorda e indifferente: in quell’autunno del 1980 spicca, gigantesca, la statura di Marco Pannella. In occasione del XXIV Congresso del partito radicale, parla di amore che “non si divide, come si vuole o come questa società continua a volte a pretendere di fare”, e di rispetto che “è amore per l’altro, non consumo, ma creazione di speranza”. Dall’altro lato, la magistratura, con un’indagine chiusa in fretta e furia, pur nelle sue lacune plateali: giustizia e diritti non posso che passare per magistrati indipendenti e culturalmente attrezzati. Lepore, elegante latinista, inizia questo libro con Properzio. Aggiungiamo, a chiusura, il semplice auspicio degli amanti tragici di West Side Story: “there’s a place for us”. Il fondamento del diritto di esserci.