I nodi essenziali della nostra esistenza: il rapporto con la madre, l’assenza/presenza del padre, la memoria di litigi irrecuperabili tra generazioni (madre e nonna), il raggelamento emotivo di un ragazzo che cresce fino a ritrovarsi lui stesso padre, la povertà di mezzi, la scuola cattolica e la laica, l’amante pescata in aeroporto e gli appuntamenti in albergo. Tutto questo generosamente ci viene dato nell’ultimo bel romanzo del napoletano Gianni Solla (classe 1974), Tempesta Madre (Einaudi, pp. 206, euro 17).

Per di più tra le coordinate geografiche ridotte all’essenza di due quartieri napoletani, la cui lontananza galattica resta il sigillo inestinguibile della nostra città (e di molte metropoli drammaticamente scisse): il Vomero della nonna e il Rione delle Mosche della madre e del protagonista bambino, in una casa popolare occupata abusivamente al sesto piano di una palazzina con l’ascensore sempre scassato. E il rione subito li bolla: «Ci chiamano la ragazza bionda con il bambino scemo». Il protagonista bambino, che tutto osserva, tutto annota sui quaderni riempiti nelle celle frigorifere della macelleria paterna, tutto ricorda (soprattutto i nomi dell’anatomia umana), esclude «che facciano le assemblee di condominio per decidere se mettere in giardino, al centro del cortile, gli alberelli di melograno o i bonsai, anche perché non c’è nessun cortile, nemmeno una pianta, ma solo moltissimi cazzi disegnati sulle pareti dei corridoi». La madre del bambino – nominata come “la segretaria” in ricordo del lavoro che fu, innominata sino all’ultimo rigo dell’ultima pagina – è un’addolorata che fuma sotto copertura di occhiali da sole combattivi: sopravvive, trascinandosi, accudita dal suo unico figlio maschio.

Solla, con una sapienza meravigliosamente naturale, fa apparire e scomparire la segretaria attraverso il ricorso alle strutture dell’intreccio (alternanza tra presente e passato, madre giovane e bella, madre anziana e demente, rinchiusa in casa di cura, ma sempre bella), sicché noi, col protagonista, ci avviciniamo e ci allontaniamo, la detestiamo e la compatiamo, la vorremmo come madre e preghiamo che non vi siano madri del genere, fino ad arrivare alla sparizione, smemorata e notturna, e al ritorno – da sacra scrittura – attraverso il nome. Il bambino diventa un uomo incerto, piuttosto incapace di intessere relazioni stabili col mondo femminile, passivamente orientato a osservare e a parare i colpi dell’insensatezza greve dell’ambiente di lavoro o degli appuntamenti ad un bar troppo affollato.

Eppure, proprio l’aver avuto una madre che travolgeva ogni consuetudine nel linguaggio e nel comportamento l’ha forse predisposto a un’attitudine meno predatoria, e a lasciarsi vivere il destino tremendo della preda: «Con Veronica però avevo abbassato ogni difesa, l’avevo vista da subito come un desiderio che si trasformava in azione. Ma lo scarto tra noi era troppo grande e mi aveva lasciato andare giù, sul fondo della piscina, come un oggetto inutile».
In questa lingua di Solla che sa sempre restituire la luce offuscata delle cose, impariamo daccapo la protervia ineludibile, la tempesta non annunciata né prevista che c’è nel nostro essere nel mondo e nel nostro rapporto con chi in quel mondo ci ha gettato.