Lei che non tocca mai terra (NN Editore, pp. 240, euro 17), secondo romanzo di Andrea Donaera, conferma almeno due elementi chiarissimi sin da Io sono la bestia, esordio dell’autore pugliese. Donaera tesse una ragnatela e il lettore ci resta avviluppato, mettendosi a correre sui suoi fili fino ad arrivare alla pagina finale senza fiato. E questo accade non solo e non tanto per la facilità di mettere in campo voci diverse, teatralizzando in qualche modo l’intreccio, soprattutto dei molteplici personaggi, e neppure per il ricorso a un parlato, anche dialettale, che si fa cadenza ossessiva, a volte penetrante. Credo invece che questo accada perché Donaera vuole imprimere alle sue storie e ai suoi personaggi le dimensioni di presenze schiaccianti, esperendo esse dolori assoluti, perdite imponenti, scelte sanguinarie degne di riti remotissimi e spaventosi.

Ho avuto la fortuna di leggere Il cielo è dei violenti due mesi prima della lettura di Donaera che, evidentemente, vi attinge tanto da adoperare una citazione di quel libro nell’apertura del suo. Come nel capolavoro di Flannery O’Connor, anche qui uno dei personaggi principali (di certo il più rapinoso) è una sorta di santone, esorcista, profeta del paese. Papa Nanni è anche il fratello del sindaco che ha una figlia in coma, una moglie divorata dall’odio verso il cognato guru e una casa che trascina il peso di un dolore irredento, di colpe inespiate. La ragazza viene visitata da Andrea (in un capitolo che ricorda il momento in cui si conobbero, apprenderemo che questo Andrea di cognome porta Donaera) quasi ogni giorno. Il ragazzo l’ama ed è affascinato profondamente da Papa Nanni. Dall’intreccio fittissimo delle loro storie prenderà fuoco la deflagrazione finale.

Ma cosa più colpisce di questa storia di amore e odio, di morte e rinascite (impossibili, qui e ora)? La dimensione dell’indecifrabilità del confine, che noi vorremmo netto e controllabile, tra il Bene e il Male (un confine che Papa Nanni è convinto di detenere saldamente nelle sue parole, nelle sue pratiche, nei luoghi del santuario dove esorcizza e colpisce il tamburello con dita estatiche). Un confine che non risiede nell’astrattezza del pensiero, nonostante gli sforzi poderosi di secoli di teologia e filosofia; un confine che non può risiedere, se non con costi umani altissimi, nella foga redentrice di Papa Nanni. Piuttosto, quel confine esala, incerto come un filo d’incenso, dalle storie di fragilità umana di Miriam, di Gabry, di Andrea, dall’impossibilità di risolvere la tensione tra il desiderio di un bene assoluto, di una redenzione ante mortem e la concretezza dei corpi, viventi e toccanti terra che di esperienza in esperienza ricevono dalla realtà l’occasione del loro intimissimo, insindacabile bene.

In una pagina evangelica di sapienza esemplare, si adopera la parabola della zizzania per dire che il male sorge e cresce insieme all’erba buona: quando i servi chiedono al padrone se non sia il caso di correre ad estirpare la zizzania, il padrone glielo impedisce, perché non è compito loro né il tempo opportuno è giunto. Invece in Lei che non tocca mai terra arriva una precipitazione narrativa inesorabile, in cui non solo Papa Nanni, ma anche Mara, la madre di Miriam, intendono strappare e bruciare la zizzania: che poi non è altro che il fascio pesante dei nostri fantasmi, delle colpe che non ci perdoniamo, le colpe contro l’amore. Ed è in questa metafisica pugliese dell’amore incolpevole e dell’odio colpevole che l’azzardo di Donaera alla fine riesce.