Leggere i romanzi di Alessio Arena comporta l’imbattersi in alcuni ingredienti fondamentali: la musica, amori contrastati e carnali, peripezie tra diverse parti del pianeta e l’evocazione di una presenza spirituale, non riducibile a pura razionalità logico-argomentativa. Nel suo ultimo, Ninna nanna delle mosche (Fandango, pp. 252, euro 17), questi ingredienti lievitano a dismisura, grazie a una ambientazione potente che si muove, in un’estate del 1927, tra le asprezze della terra lucana e quelle, più ardue e incombenti, del Cile, in special modo del Cile del Nord.

È vero che la storia è gremita di personaggi e molteplici tracce narrative (forse in modo eccessivo), e che il suo nodo si avviluppa attorno alla storia di amore di Gregorio e Berto, e a quelle di amicizia, passione e devozione di personaggi femminili impervi, come la pianista Dorotea, la ninnanannara Serafina Canaria o la direttrice di circo cilena Pascuala (che bei nomi da romanzo d’avventura!): tuttavia, la vera protagonista di questa storia è la speranza di riscatto e rinnovamento che abita il Sud d’Italia con la sua povertà, le sue superstizioni, la sua miseria morale e quella Merica dove si espatriava, per andare, ad esempio, a lavorare nel deserto cileno presso le fabbriche di estrazione di salnitro. Fabbriche che diventavano naturalmente centri abitati, talvolta persino dotati di un cinematografo, come nel caso di Porvenir, dove arriva a lavorare, azzoppato e con una folta chioma di capelli rossi, quel Gregorio esiliato dalla Lucania dalla provvidenza invadente di un sacerdote che, pure, gli aveva consentito di imparare a leggere e scrivere.

Fabbriche gremite di gente di fede, che attende il 16 luglio per andare nel mezzo del deserto a celebrare la veglia per la Vergine di La Tirana. Al centro del romanzo di Arena, insomma, c’è la natura, con tutto quello che di grandioso, bellissimo, crudele e spiazzante essa comporta, una specie di grossa donna, una leopardiana signora che invece di intrattenersi con l’Islandese declina l’ineludibile mescolanza di purezza e impurità nel ronzio di uno sciame di mosche moleste che vanno spostandosi di contrada in contrada nel paesello lucano di Palmira, e poi oltre l’oceano, ridotte a larve marcite all’interno di un chitarrino affatturante, oppure a presenza immaginaria, che segnala un destino incombente di corruzione.

E questa natura è il sisma che distrugge di tanto in tanto pezzi d’Italia e di Sud, che si abbatte sul Cile allo stesso modo, anche, o forse soprattutto, mentre una piazza gremita nella notte esala le sue preghiere alla Vergine del Carmine di La Tirana; è il suono feroce dell’oceano attraversato dalle navi cariche di emigranti; è la trapunta di costellazioni, che Berto disegna e nomina. Natura, forse, è l’incantamento provocato dalla voce umana che intona ninnenanne su strofe variate all’infinito. Tutto questo è l’anima del romanzo di Alessio Arena: in epoca di catastrofi climatiche annunciate e via via esperite, che questa natura – immune dalle colpevolizzazioni patetiche delle relazioni umane – diventi centro dell’intreccio e specchio delle vicende umane ci sembra un mondo antichissimo e nuovissimo di raccontare l’oppressione di noi, gente che sovraffolla incosciente il suo habitat, tentando vie, ora sincere ora insincere, per trovare nuovi equilibri.