In Capolavoro d’amore, ultimo romanzo di Ruggero Cappuccio (Feltrinelli, pp.218, euro 16) tutto è eleganza, poiché tutto è scelta accurata, a partire da quella (controcorrente) dei protagonisti, espressione di una ricca borghesia colta e raffinata, ancora capace di un rinnovato impegno etico, dal suicidio all’affidamento di una bambina siriana. Il protagonista, Manfredi, quarantenne antiquario, ritorna da Roma alla sua Palermo, richiamato da un anziano zio vedovo, Rolando Levrone, personalità eclettica di pianista, pittore e scrittore.

Lo zio vuole affidare al nipote le sue ultime confessioni, che ruotano attorno alla storia di un furto “eccellente” la Natività del Caravaggio trafugata dall’Oratorio di San Lorenzo in Palermo nel 1969. Quel furto assurge a simbolo delle sottrazioni più dolorose che gli individui così come le comunità subiscono non per tragiche fatalità, ma per colpevole incapacità di custodire un’eredità abbagliante. Simbolo specifico delle criminali incurie del Sud Italia ai danni delle sue meraviglie d’arte e di paesaggi: e non a caso la presenza della mafia aleggia in tutto il romanzo, chiodo arrugginito conficcato malamente nel corpo di luoghi, oggetti, volti di purissima, incantevole bellezza.  Ma l’eleganza di Cappuccio (che non sorprende chi conosce le sue regie: come dimenticare il Falstaff di Busseto nel 2001?) si misura poi nelle scelte che compiono i suoi personaggi.

Da quelle più grandi – tragiche o benefiche – a quelle più piccole: indossare un certo orologio al momento della morte, tenere chiuso il grande salone della casa palermitana di Manfredi fino al momento in cui una serie di presenze femminili sarà in grado di accedervi di nuovo, i percorsi a piedi per Palermo, il luogo e il modo di sorbire il caffè, i dettagli che servono a manutenere certi ricordi, l’ossequio per il computo delle ore e dei giorni. Ed è un’eleganza che si fonda sulla consistenza etica di una cultura secolare: le forme esteriori corrispondono alla capacità di rinuncia e sacrificio. Il più prepotentemente inattuale è lo zio Rolando, con la sua scelta di ritirarsi dalle esibizioni pianistiche, pur essendo l’unico paragonabile al genio interpretativo di Benedetti Michelangeli (le pagine dedicate al loro incontro mentre vanno a visitare la casa di Leonardo a Vinci cercano di ricordarci quanto ogni discorso sull’arte, per essere credibile, deve essere esente dalla mania della personalizzazione e, come direbbe la Kundry wagneriana, dovrebbe sempre “servire”, essere al servizio del bene che la bellezza delle idee propaga, nonostante tutto).

Capolavoro d’amore è, infine, l’eleganza dell’umiltà: se per certi versi Cappuccio viene attraversato dalla scrittura dannunziana del Trionfo della morte, Manfredi resta portatore di uno sguardo attento a tutte le ferite del mondo: quella sulla parete vuota dopo il furto di Caravaggio, quelle sue e della famiglia, quelle delle persone col loro ordinario mestiere di vivere: “Capiva che le loro sofferenze erano molto lontane dal dispiacere per un quadro rubato o per un amore finito…Desiderava penetrare tra le fibre dei loro corpi per confermarsi che tutti gli essere umani fanno parte di un unico, enorme organismo”.