Col suo ultimo libro, La ferita (Alessandro Polidoro Editore, pp.109, euro 14) Lucio Leone osa inerpicarsi, con molto coraggio e con sincerità (e con lui l’altrettanto coraggioso editore napoletano), per i sentieri irti di ostacoli e pericoli della narrazione simbolica e surrealista, da un lato, e dell’indagine filosofica e psicologica, dall’altro. I temi affrontati in poche pagine sono numerosi (troppi, forse) e tutti spinosi: la libertà di coscienza che può esprimersi nel suicidio, per esempio, come pure la depressione, la rimozione delle ferite familiari infantili e la ricerca di una comunione più vasta tra io e mondo. Questi temi trovano un canale preciso nella scelta del mestiere del protagonista: che vive in una stanza dalle pareti immacolate, arredata di un telefono con cui riceve le chiamate di lavoro, e di una borsa degli attrezzi dal manico usurato.

Il protagonista in effetti è interpellato per intervenire sui corpi dei morti per suicidio, onde incidervi un taglio chirurgico tale da consentirgli, sollevato il lembo di pelle necessario, di entrare nel corpo del suicida e di ritornare a quel punto del tempo in cui questi ha maturato l’intenzione di togliersi la vita. Il protagonista deve allora intervenire con gesti e con parole per tentare di impedire l’atto suicidario, convincendo in qualche modo l’“assistito” di turno che vale la pena, invece, continuare a vivere. Questo mestiere viene esercitato per molto tempo senza porsi troppe domande e soprattutto senza coinvolgimento emotivo, fino a quando il nostro incoccia nel primo fallimento della sua missione. Da questo momento, il suo lavoro si farà difficile, i pensieri, i dubbi, gli interrogativi si moltiplicheranno, il suo corpo sentirà tutto in modo più forte, attraversato com’è da una perpetua incertezza, da una costante instabilità, e la sua mente si aprirà al contatto autentico con l’esperienza degli altri ma, soprattutto, con la sua esperienza di infanzia, dove riposa, nel freddo e nel silenzio, un trauma rimosso tra fratello e sorella.

C’è un percorso interiore interessante che questa storia disegna, e che mi pare una chiave di lettura intelligente e originale per affrontare i tempi che corrono: al volontarismo iniziale del protagonista, che sembra tutto controllare tanto pacificamente quanto acriticamente, va sostituendosi l’esperienza totalizzante dell’empatia verso le scelte altrui, anche le più terribili, le più incomprensibili, come quelle suicidarie. In un tempo storico che ha aperto un discorso globale (dal Canada alla Nuova Zelanda) sul suicidio assistito, si tratta come ognuno può ben immaginare di un percorso formativo importante, che riguarda il nostro sguardo sulla morte, sul rapporto tra morte e libertà (che sembrano configurare un insormontabile ossimoro), e sulla malattia (il nostro essere o sentirci sani, e perché). Nella stanza del protagonista prenderà piede un piccolo albero di pietra. Lasciamo al lettore di seguirne le sorti e tracciarne i possibili significati. Restano, più di tutte (più, forse, degli a volte eccessivi strati simbolici e psichici in cui il protagonista finisce irretito) le toccanti, intime pagine finali, a risanare la memoria ferita dei traumi rimossi.