È un solido racconto polifonico quello che compone Raffaele Notaro, nolano di origine, nel suo romanzo di esordio Densità (Mondadori, pp.264, euro 18). In una provincia meridionale collocata dentro un passato recente ancora segnato dalle ultime tracce di un mondo contadino quasi consunto si agitano le conseguenze di una scelta tragica: il suicido – volontario, istigato, adiuvato oppure addirittura un omicidio? – del giovane Filippo, quattordicenne maturo, posato, bello e sportivo. Eppure, schiacciato da qualcosa di troppo pesante da reggere. In questa storia, protagonista è una comunità con i suoi riti, le sue abitudini, i suoi processi rigorosamente celebrati fuori dalle aule di giustizia.

Infatti, Filippo lascia il suo migliore amico, il goffo Gabriele, con la sua lingua misteriosa (è affetto da una forma di apparente ritardo cognitivo), in balia delle reazioni degli adulti. A partire dalle madri, temibili protagoniste del racconto: Angela, madre di Gabriele, e Stefania, madre di Filippo. Per ricostruire quel che è accaduto, con una tensione continua che lambisce, più che attingere, ai generi del thriller psicologico e, per certi versi, del noir, Notaro gioca continuamente col piano temporale, e fa pattinare il lettore avanti indietro in circolo sopra una pista scivolosa, quella della moltiplicazione dei piani di realtà in corrispondenza alla pluralità dei punti di vista, che sono, alla fine dei giochi, le esperienze di dolore di tutti i personaggi, e di tutti noi. Ciò che più colpisce di questo racconto è il peso attribuito al non detto, a quello che si vive e non si dice (invece lo stile esce indebolito da certi momenti, soprattutto nella parte finale del romanzo, di verbosità spesso non pienamente coerente con le varie matrici dei personaggi). Questa ambiguità Notaro riesce a giocarla, ci sembra, in due sensi.

In primo luogo, perché tutta una serie di informazioni che il lettore crede rivelatrici di possibili colpi di scena invece si riduce a qualcosa di molto più sottile, di molto meno esplicito, a qualcosa, cioè, di profondamente “interno” alla dinamica psicologica dei personaggi. Il processo appena descritto è per esempio molto visibile nell’incontro finale tra Gabriele e il padre di Filippo. Ma vi è un altro senso in cui il non detto gioca un ruolo essenziale in questo racconto: le motivazioni del suicidio dell’adolescente non ci verranno mai sbandierate, comprendiamo che la fragilità di Filippo ha a che fare con la formazione (o mancata formazione) nella sua educazione sentimentale e sessuale, ha a che fare con Sonia, da un lato, l’amica sensibile e decisa che vive isolata da (quasi) tutti, Gabriele, dall’altro (è ricca di senso ogni scena, anche ogni abbozzo di scena che vede i due ragazzi vicini, abbracciati, in contatto).

Tutto questo evoca l’omosessualità e, allo stesso tempo, indica la povertà di qualsiasi categorizzazione, l’eccedenza dell’esperienza di vita dei personaggi raccontati rispetto agli enunciati teorici. D’altra parte, questa eccedenza è proprio la densità del titolo del romanzo, la pesantezza dei “materiali esistenziali” che Filippo, Gabriele, Sonia, Angela, Stefania e tutti gli altri si portano dentro e attraversano.