Alla ricerca di una radice personale di amicizia e formazione, l’indagine che Maria Rosa Cutrufelli ci consegna su Maria Giudice nel libro dal titolo omonimo (Giulio Perrone, pp. 140, euro 15) è un’occasione immancabile per ripercorrere sì un pezzo di storia italiana – il primo quarantennio del ‘900 -, ma soprattutto le idee socialiste nella loro forma più puramente libertaria incarnate, participio mai come qui necessario, dalla figura della Giudice: «Un socialista insomma non è tale se non sa essere riformista e rivoluzionario nello stesso tempo».

L’afflato libertario – espresso in questo caso da una donna nata nel 1880, quindi un afflato “al cubo” – mai come in questo frangente storico dà spazio a un esercizio di intelligenza e memoria necessario per attraversare il guado melmoso dell’attuale stato delle democrazie occidentali. Cutrufelli riesce con la sapienza che le è propria a intessere lievemente tutti i riferimenti storici (le redazioni dei giornali socialisti, personalità quali Angelica Balabanoff e Anna Kuliscioff, le “apparizioni” di Mussolini e Gramsci, le rivolte operaie e contadine a partire dall’omicidio di Muzio Mussi) alle giornate di Maria Giudice, del suo essere convivente – prima con Carlo Civardi, poi con Peppino Sapienza – rifiutando radicalmente il matrimonio; del suo essere maestra, madre di nove figli, incarcerata ed esule in Svizzera per portarvi a termine serenamente la sua prima gravidanza: «Dico che è una maternità sorda e cieca, questa, che pensa, s’affanna e provvede soltanto alla propria creatura… E torno a casa e bacio la mia piccola bambina e tremo d’angoscia perché penso che non ho il diritto di essere una madre felice».

Vita epica, sì, raccontata con lo sguardo di chi è nato nella generazione destinata a vivere la svolta democratica del XX secolo e l’attuale secolo: ma un’epica raccolta, sempre umanissima, sempre illuminata dal rovello di domande che non possono trovare risposta, un’epica consumata in spostamenti incessanti nei luoghi dell’iniquità per creare consapevolezza e «essere educata, educando». Questa “libera unione” (ricorro al termine adoperato all’epoca per indicare la convivenza di fatto) tra documento storico e narrazione personale si rende forse possibile in un modo così scorrevole, autenticamente toccante, perché Cutrufelli attinge per ogni suo capitolo a una fotografia: di per sé prodotto dalla natura perfettamente duale, documentaria e intima.

Ma dicevamo che il tono sempre partecipe di questo racconto è dovuto a un’indagine personale che riguarda l’amicizia dell’autrice e la sua stessa formazione nei decenni: inizio e fine del libro infatti evocano una delle sue amiche più care, quella Goliarda Sapienza che di Maria Giudice fu la figlia più amata. Le scriverà, negli ultimi anni di vita: «Tu sei l’unico legame che mi tiene ancorata alla vita». E ancora: «Dove sei? La domanda non mi affanna, perché tu sei sempre qui, vicina al mio spirito. Più che di averti vicina, ho bisogno di saperti contenta. Lo sei?». Una vicinanza, una prossimità che questo libro invera a beneficio del lettore non solo per Maria Giudice, ma anche per Goliarda Sapienza e, attraverso di loro, per la stessa Maria Rosa Cutrufelli.