La nuova uscita di narrativa italiana dell’editore napoletano Polidoro, Tutti i soldi di Almudena Gomez (pp.217, euro 14) è firmato da Valentina Di Cesare ed è una lettura piacevole, divertente, in qualche misura pacificatrice. La protagonista della vicenda è una bella signora sudamericana che ormai vive nel nord Italia da circa venti anni. Gli ultimi sedici li ha trascorsi come governante di una vecchia signora, distinta, dalla lingua biforcuta e il pensiero libero, vividamente intelligente.

Con la morte della datrice di lavoro, Ivetta Cols, si apre un sipario di vicende non prevedibili nella vita di Almudena Gomez. O, forse, solo apparentemente imprevedibili. Almudena infatti cercherà un nuovo lavoro di domestica, continuerà a vivere in una stanza mobilitata di un quartiere popolare intriso di malinconia, ma affronterà alcune sfide decisive: da un lato, l’inizio di un amore con un signore facoltoso arricchitosi in Svizzera, il quale la aiuterà a difendersi in un processo penale imbastito dai figli della Cols ai suoi danni; dall’altro, vincerà una grossa somma alla lotteria. Ma quella somma vinta al gioco sarà il vero inizio di una vocazione a giocare d’azzardo che la signora Cols, col suo occhio di lince, aveva riconosciuto nella sua domestica per essere stata lei stessa, da giovane, una formidabile giocatrice d’azzardo, le cui ali erano state tuttavia tarpate dalle angosce del marito e dalle necessità familiari. Due aspetti mi colpiscono in questa lettura, dove la voce della signora Cols esibisce perle di sapienza talvolta sagaci per concetto e scelta linguistica.

Il primo riguarda il gioco: Almudena sorge al crocevia tra La donne di Picche e la Babette di Karen Blixen. Il gioco non è qui la passione devastante della letteratura maschile, ma un varco rassicurante verso oasi di libertà. Il secondo aspetto riguarda il personaggio di Almudena, sempre molto silenzioso, prudente, posato, quasi anaffettivo e impenetrabile, un bel guscio sotto cui si nasconde, forse, solo il vuoto. Capiremo che così non è. Ma una cosa Almudena consegna a noi lettori di un XXI secolo guardone che attraverso i social sputa sentenze imbecilli a ripetizione (lo fanno i professoroni come i cosiddetti ignoranti, si badi): Almudena non possiede verità, e soprattutto non vuole possederne. Lei cammina sui mezzi pubblici ascoltando, ricordando, riflettendo. Ma sommessamente. Riconosce i segnali grazie al silenzio. Non sa gridare. Non sa brandire certezze. Lavora e vive. Con dignità.

Ecco, credo che questo libro sia pieno di un inno, ironico e delicatamente ambiguo, alla dignità degli anni vissuti, ciascuno nel proprio mistero irrisolto. In effetti «di tempo ce n’è uno generale valido per tutti, per intenderci quello che sta sugli orologi, e uno particolare, riferibile alla vita di ogni essere umano, coi suoi battiti decisivi, le sue ore di punta, le sue occasioni mancate. Per il silenzio vale lo stesso: da una parte quello assoluto, quello che ci chiedono di fare a scuola o in chiesa, quello della notte, del camposanto, dei deserti, della solitudine, e dall’altra quello singolare, che cambia per ciascuno degli abitanti di questa Terra, ognuno con la sua sorgente invisibile».