Ripartire da Bettino Craxi, solo così la sinistra diventerà riformista

Caro Direttore,
con il 19 gennaio 2020 si avvicina il 20° anniversario della morte di Bettino Craxi. In quest’occasione, proprio mentre nelle sale arriva Hammamet, l’atteso film che Gianni Amelio ha dedicato allo statista interpretato sul grande schermo da Pierfrancesco Favino, in molti andremo in Tunisia davanti alla sua tomba per commemorarlo. Su impulso di Stefania Craxi la Fondazione che da lui prende il nome sta preparando una serie di dibattiti lungo tutto il 2020. Ma “il problema Craxi” va molto al di là del “culto della memoria” che giustamente portano avanti la sua famiglia e quell’area politica e culturale che si richiama al socialismo italiano. A questo proposito bisogna sottolineare il lavoro svolto da Luigi Covatta e da Gennaro Acquaviva con alcuni dei più significativi storici italiani e all’autonoma elaborazione di singoli studiosi: questa volta non è passato il motto secondo cui la storia è fatta dai “vincitori”.

Del resto, i “vincitori” del ’92-’94, vale a dire i post-comunisti di scuola berlingueriana, non solo dal ’94 in poi non hanno più vinto sul piano politico, ma sul piano storiografico sono stati “smontati” e “demistificati” dall’interno stesso della loro area (vedi Andrea Romano: I compagni di scuola, i libri di Emanuele Macaluso, di Umberto Ranieri e di Paolo Franchi, lo stesso Rendiconto di Claudio Petruccioli). Tantomeno la “questione Craxi” può essere affrontata e risolta positivamente o negativamente sul piano “topografico”. A nostro avviso, se non si vuole cadere nel ridicolo, qualunque leader politico dovrebbe entrare nella topografia, indipendentemente dalle contestazioni che possono essere fatte su questo o quell’aspetto della sua biografia. Ma de hoc satis.

Il problema che vogliamo affrontare è molto più complesso e “difficile” di quello costituito dal nome di una via. Esso riguarda la lettura della storia di questo Paese e, in essa, la storia della sinistra italiana. Anzi, per molti aspetti la questione va rovesciata: a nostro avviso se la sinistra post comunista, allo stato il Pd e Italia Viva, non fa i conti con tutto ciò che “evoca” la figura Craxi (il riformismo teorico e pratico, il garantismo, lo stato di diritto, la riforma della giustizia, la “grande riforma” fino al monocameralismo, l’impegno per lo sviluppo dell’industria manifatturiera e per una cogestita flessibilità dell’uso del lavoro per aumentare la produttività e aumentare l’occupazione, il legame profondo con l’Occidente e una politica attiva nel Mediterraneo, il rifiuto assai netto del massimalismo sociale, del giustizialismo ideologico, pratico e mediatico, di ogni sovranismo, antisemitismo e razzismo) non solo assume una posizione sbagliata e nella sostanza reazionaria nei confronti di un personaggio che come Berlinguer, La Malfa, Fanfani, Andreotti, De Mita è stato uno dei grandi leader della seconda fase della prima Repubblica, ma come i fatti dimostrano non riesce neanche a crescere e a esprimere un progetto organico, forte e convincente per il Paese.

Non a caso anche dopo la distruzione del Psi e del centro-destra della Dc, la sinistra post-comunista è risultata sempre in difficoltà, ieri di fronte alla risposta liberale e moderatamente populista di Berlusconi, adesso nei confronti del populismo antipolitico dei grillini e del pericoloso sovranismo razzista di Salvini che usa stilemi e parole d’ordine tratte anche dall’armamentario comunicativo del mussolinismo, usando la rete internet e le reti Mediaset che attualmente lo trattano come se la Lega fosse il Milan e Forza Italia il Monza.

In effetti la sinistra post-comunista sta seguendo un comportamento politico che nella sua metodologia è simile a quello del tutto sbagliato seguito da Berlusconi negli ultimi anni. Berlusconi e Forza Italia sono ridotti ai minimi termini anche perché dal 2013 in poi sono andati a zig-zag, un giorno moderati, un giorno estremisti e ciò ha dato a Salvini e alla Meloni un grande spazio politico ed elettorale. A sua volta il post-comunismo, nelle sue varie espressioni partitiche – Pds, Ds, Pd – sul piano economico e sociale ha oscillato fra un incerto gradualismo e il massimalismo, sul piano dei diritti è andato a zig-zag fra il giustizialismo più efferato (al punto di prendersi come alleato preferenziale Di Pietro e l’Italia dei Valori) e un contraddittorio, intermittente e timido garantismo.

Tutto ciò è derivato anche da una lettura distorta di ciò che è avvenuto in Italia dopo la rottura rivoluzionario-eversiva di Mani Pulite: diversamente da ciò che sta avvenendo a livello internazionale in Italia non sono dominanti i grandi gruppi finanziari-industriali (quasi tutti sono falliti, o sono in crisi, o sono stati acquistati da mani straniere): in Italia la forza egemone è la magistratura, che non a caso a suo tempo ha eliminato dalla scena ben cinque partiti, che ha svolto un ruolo fondamentale nello scontro fra berlusconismo e antiberlusconismo, che adesso condiziona la scena politica perché ispira e influenza una nuova forza come il Movimento 5 stelle, una situazione unica in Europa e sta ogni giorno sulle scene, attaccando questo o quel leader politico, liquidando pezzi di politica regionale e comunale.

Di conseguenza la traduzione di un’intesa tattica qual è il governo giallo-rosso in un’intesa strategica sarebbe un autentico disastro per il Pd, così come lo è stata a suo tempo quella con Di Pietro da parte del Pds-Ds. Infatti, un’intesa strategica fra il Pd e il M5s si fonderebbe inevitabilmente sul peggio della tradizione vetero comunista e dello stesso berlinguerismo, cioè il giustizialismo etico e il massimalismo sociale anti imprenditoriale.
(Fine prima puntata – continua)