Schiavi dei sogni o del potere: quegli autori persi nel Ventennio nero

Non temo di eccedere accostando l’immagine evangelica del Regno come un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche al libro di Antonio Di Grado Scrivere a destra (Giulio Perrone Editore, pp. 380, euro 18), che consegna al lettore una preziosa chiave di accesso alla conoscenza, di un tempo storico e letterario, di un intreccio tragico di esistenze e scelte ideali, di una pratica appassionata ed eroica dell’amicizia.

In pagine che traboccano di sapienza spirituale, lo studioso catanese ci fa addentrare nella foresta notturna e intricata della letteratura durante il ventennio fascista: «Confido che sarà almeno un bel gesto di pietas non solo storiografica avventurarsi in quei binari morti, in quei sentieri interrotti, per sottrarre all’oblio un nutrito drappello di hommes des lettres privi di fama non di sventura». Ogni capitolo è un labirinto che setaccia di percorso in percorso un tema, una visione, un affanno e una speranza: ma chi ci guida con la lampada ferma della mitezza a ogni passaggio lancia il suo monito, nodo critico fittamente intrecciato di letteratura, etica, politica. L’orizzonte del libro è tracciato dall’urgenza di riportare alla memoria del lettore attuale scritture dimenticate, perché segnate dal marchio di infamia dell’aderenza al fascismo, oppure dal destino dell’incomprensione, allora e oggi (con la speranza di un oggi meno ottuso), oppure ancora ricondotte dalla critica e dalla storiografia a impoverite etichette unidimensionali.

Scrivere a destra smuove lo stagno, con coraggio, con pietà, con l’amore per la densità feconda delle idee e della loro scrittura che, al fondo, solo conta e solo resta. I sentieri dei capitoli-labirinto sono moltissimi. E tutti palpitano di vita e pensiero. Scelgo i più amati. Le pagine su Concetto Pettinato, la rievocazione della sua scrittura, del suo fascismo ottocentesco e riformista con la radicale insofferenza per il capitalismo sono sbalorditive, perché, tra l’altro, gettano un ponte vertiginoso da allora a oggi su una (le parole sono di Pettinato) «Europa di burocrati, di chierici, di mercanti, di mercenari e di pensionati». Così, le pagine dedicate a Berto Ricci, alla sua «propensione spiritualistica sincera e sentita», «connaturata, piaccia o no, alle culture di destra».

Ancora più potenti, perché commoventi nel pudore con cui raccolgono lasciti di pensiero ridotti a larve, le pagine del capitolo Le imperdonabili, il profilo di Margherita Sarfatti, intellettuale ebrea amante del duce e autrice di Dux, libro allora fortunatissimo subito tradotto in Inghilterra; le incursioni nei versi ora abbaglianti ora illividiti di Antonia Pozzi; la restituzione alla sua dignità rivoluzionaria di Paola Masino, del suo Nascita e morte della massaia.
E, infine, le pagine dedicate alla letteratura che venne dopo la fine della guerra, e che veniva scritta tra divieti e censure da chi si era posto dalla parte dei repubblichini: Berto, Rimanelli. Qui l’autore sente di dover lasciare un segno di coscienza civile, che in Italia è sempre (o era?) segno di coscienza letteraria e artistica: la memoria divisa resterà tale, ma che non sia manichea! La maturità di una comunità verrà pesata – parafrasando Cioran – dalle lacrime versate per tutti i morti: a esse «è lecito scavalcare steccati e scompigliare schieramenti».