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Separazione delle carriere, opporsi alla riforma significa ignorare la Costituzione
Non è superfluo riportare qui una disposizione costituzionale. Anzi, è utile farlo per rimarcarne l’alto valore sociale e giuridico, per ricordare il dovere di rispettarla, con l’obbligo dei Poteri di attuarla e, in qualche caso, per smascherare la Cassandra di turno, come antidoto all’imbroglio. “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. È un principio chiaro – sul cui valore culturale, storico e giuridico in questo numero si soffermano autorevoli studiosi – e la cui interpretazione non merita le mortificanti e arbitrarie soggettività di chi ritiene che per attuarlo basti la separazione delle funzioni giudiziarie, che già di fatto esisterebbe, pur con rare eccezioni.
La disposizione descrive il sistema relazionale e di potere tra i protagonisti necessari del processo, offrendo l’immagine del triangolo isoscele, dove agli angoli della base ci sono le parti e al vertice, in posizione equidistante, il Giudice. Un richiamo inconsapevole all’atavico sentimento del divino che è proprio della Giustizia, riferibile al Giudice che solo in questa rassicurante prospettiva convoglia su di sé e sulla decisione, il consenso generale. Quanti frequentano le aule di giustizia sperimentano come quel principio costituzionale sia inattuato e l’immagine di sistema che si ricava è piuttosto quella del triangolo scaleno, dove uno degli angoli della base è molto più vicino al vertice. Poiché è evidente che non può esservi contraddizione tra l’immagine pratica del processo e quella della sua rappresentazione costituzionale, la recente riforma, con la separazione delle carriere dei magistrati e il doppio CSM, intende dare effettività a quel principio democratico, riequilibrando così il sistema processuale in senso più liberale.
La discussione in atto, allora, è la dimostrazione dell’avversione reazionaria di alcuni, per un processo dove il P.M. e il Difensore operano in condizioni di parità, in un contraddittorio necessario per la ricerca della verità, davanti a un Giudice terzo e imparziale; è anche l’ostinarsi a non voler riconoscere che tra il comma 2 dell’art. 111 della Cost. e il nuovo art. 104 vi è una relazione imprescindibile che non è di evoluzione della regola, ma di rimedio giuridico alla sua inattuazione, come atto di lealtà costituzionale. Si tratta della stessa ostilità che l’ANM ebbe sul testo proposto alla Costituente dalla Commissione dei 75 (che si occupava di redigere quello sulla Giustizia), quando il 23.1.1947 affermò che quello inficiava “i due presupposti essenziali e inderogabili di un vero e proprio potere giudiziario, vale a dire l’unità della giurisdizione e l’indipendenza ed autonomia della magistratura”. Una nenia ripetuta in occasione di altre riforme; come avvenne per il codice di rito dell’88, tanto da renderlo mutilato di alcuni principi cardine dell’accusatorietà e costringendo il Sen. Giuliano Vassalli, in un’intervista del 1987, a sostenere che quello scontro dimostrava che “la magistratura ha un potere enorme… lo ha sul potere legislativo… è il più grande gruppo di pressione che abbiamo conosciuto, almeno nelle questioni di giustizia. Fino adesso, in quarant’anni non c’è stata una legge in materia di giustizia che non sia stata ispirata e voluta dalla magistratura… hanno un potere di penetrazione, di capacità di convinzione, di convincimento, una tale coesione… è il più grande gruppo di pressione palese che noi abbiamo finora conosciuto in Italia… [quella del Parlamento] è una sovranità limitata, come quella dei paesi dell’Est europeo… limitata dalla magistratura…”. Affermazione che, proveniente da un vecchio socialista, da un partigiano coraggioso, da un valoroso professore di diritto penale, per essere smentita meriterebbe ben altro che l’uso di falsi slogan. Si persevera nel dire che “quelli erano altri tempi; altre personalità. Lasciamole riposare in pace”, con un’azione di retroguardia che non tiene conto di come ancor oggi, anche cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non muta, e dimenticando che il pensiero contemporaneo e la stessa conoscenza giuridica non possono progredire scartando i precedenti, ma migliorare grazie a quelli.
Opporsi alla riforma costituzionale, allora, significa porsi al di fuori dalla Carta, perché essa non vive del suo solo frontespizio, ma opera nella pratica dell’intero disegno, agendo nella quotidianità dei rapporti sociali e, soprattutto, in quelli intercorrenti tra individuo e autorità. Una disposizione, quella del comma 2 dell’art. 111 della Costituzione, che dimostra come i critici scambiano quei criteri direttivi (parità, contraddittorio e terzietà) per i sintomi di un generico rischio di autoritarismo, in vario modo enfatizzato. Dimostrando come il linguaggio possa imbrogliarci poiché, come sosteneva Wittgenstein, attraverso le parole si costruiscono trappole e domande che non hanno senso; consigliandoci di fare attenzione, perché la favella ha il potere di farci credere che le cose esistono, quando, invece, non esistono affatto.
Allora, se quelle voci dovessero far vacillare il nostro convincimento, se il dubbio dovesse assalirci per ragioni di appartenenza, prima di decidere, apriamo la Carta, fermiamoci sull’art. 111 e leggiamolo. Con la genuinità che gli è propria e come antidoto al tentativo di alcuni, di creare una “verità illusoria”, esso saprà darci una ragione solidissima sulla necessità di votare Sì alla prossima tornata referendaria.
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