Le mamme già sveglie in piena notte, con l’alba che tarda ad arrivare. Hanno il tempo di lavarsi in fretta e indossare qualcosa di dignitoso. Da anni ormai il trucco non esiste più. Non c’è tempo di stare davanti allo specchio con matita e mascara. Non c’è tempo per asciugare i capelli e dar loro una forma. Raccoglierli e legarli sopra la nuca, un gesto ormai sequenziale, meno impegnativo.

I piccoli segni di donna sono negati, spariti. Negato il parrucchiere, la visione di un vestito, lo sguardo perso davanti ad una vetrina. Diventano incuranti di piacere. Piacere a chi? C’è tempo soltanto per le lacrime che rendono gli occhi gonfi e perennemente lucidi, c’è tempo soltanto da dedicare alla cura dei propri figli, una grande missione che portano avanti con dedizione, amore e senza un lamento.

Vorrei poter scrivere che ci sono state delle storie, che i genitori, prevalentemente le mamme dei ragazzi con disabilità, mi hanno raccontato, che più di altre mi sono rimaste impresse, invece ogni storia merita di essere raccontata, perché è vita. Difficile, complicata, fatta di rinunce, di tanti sacrifici, una vita che per molti di questi genitori è vita nemmeno a metà. Ho visto le loro espressioni, occhi che chiedono comprensione ma soprattutto aiuto, c’è un filo sottile che lega tutte queste famiglie, da nord a sud del Paese: le difficoltà enormi potrebbero avere un sapore diverso se ci fosse una sensibilità maggiore, se ci fosse accoglienza e inclusione, prima tra le persone, poi nei servizi. Vogliono essere ascoltati, sono un fiume in piena.

La loro voce è unanime: si sentono umiliati, sono stanchi di lottare contro muri di gomma, contro la burocrazia, sono stanchi, frustrati di tornare a fare i controlli periodicamente per verificare l’invalidità dei propri figli, come se dalla disabilità si potesse guarire.

Sono storie di coraggio, di paura per il domani, di stanchezza, anche di tanti disagi economici. E non ci sono altre soluzioni se non quella del riconoscimento della figura del caregiver: familiari che prendono in cura il proprio figlio, si dedicano una vita intera a loro, dalle terapie all’assistenza a casa, comunque annientando la loro di vita privata, sociale, che non possono permettersi di lavorare quando devono scegliere tra il lavoro e il proprio figlio e non hanno dubbi su cosa sia giusto fare. Ho ascoltato la storia di Alessandra, fisioterapista, che ha chiuso lo studio donando la sua vita al figlio Gabriele, la storia di Gerlando che ha pure perso il lavoro ma ha lottato come un leone per far riconoscere alla piccola Gaia l’invalidità.

Ma potrei ancora raccontare la storia di mamma Linda. E poi ancora ricordo bene le parole di mamma Monica, che senza fronzoli e senza girarci attorno ha detto: “Sono da 19 anni una caregiver”, perché i familiari lo sanno che hanno un carico difficile e pesante da portare avanti e lo fanno nonostante la stanchezza e qualche rimpianto. È pure inutile negarlo, si tratta di genitori che amano sopra ogni cosa i loro figli, disposti a fare qualunque rinuncia, ma hanno salutato da anni le loro ambizioni, aspirazioni, i loro sogni, la loro libertà. Hanno scelto di amare, fortissimamente, dentro casa quanto di più prezioso ci fosse.

Trascorrono le giornate così i familiari delle persone con disabilità, sono le braccia che sorreggono, gli occhi che accolgono, le mani che aiutano. Sono operativi 365 giorni l’anno, nessun riposo, festivi inclusi, niente orari, niente spazio per sé stessi. Sono i caregiver, usurpati pure del loro diritto di esistere ma con uno stress quotidiano, che incide sulla sua qualità di vita e sulla salute fisica e mentale. Una vita che spesso distrugge le famiglie e favorisce le separazioni. Ogni centimetro della propria vita è annientato e messo a servizio di una assistenza umana, che diventa socio sanitaria, che diventa tutto.

Il riconoscimento della figura del caregiver è urgente, senza remore e senza paura. È una questione di civiltà, perché riguarda tutti, perché la società intera ne trarrebbe beneficio, perché nessuno deve rimanere indietro. Perché la cura delle persone con disabilità non è solo un affare di famiglia, non hanno scelto di essere dei caregiver, è capitato e non sono scappati davanti alle difficoltà.

Nessuna di queste famiglie che ho ascoltato si è mai arresa, spesso però si sentono soli e invisibili, per sconfiggere la solitudine è inderogabile l’approvazione della legge sul riconoscimento della figura dei caregiver, perché l’assistenza familiare è un lavoro, senza tutela, che va riconosciuto. Per questo abbiamo lanciato una campagna sulle mie pagine social: #sonouncaregiver. Raccontiamo le storie di tutti, ci organizziamo tutto insieme e porteremo avanti tutte le necessarie iniziative affinché il risultato non sarà centrato.

Scrivetemi in privato sui miei social, anche la vostra storia diventerà la tessera di un grande mosaico.

Davide Faraone

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