L'intervista
Stop alla ricerca con Israele, De Lorenzo: “Lì iniziai la mia carriera con una borsa di studio. La scienza non è politica ma a vincere è sempre l’odio”
Medico e politico, Francesco De Lorenzo, oggi 87enne, è stato più volte ministro con il PLI. Da titolare della sanità ha riformato il Servizio Sanitario Nazionale, istituito il Comitato nazionale di bioetica e varato le prime leggi per il controllo trasfusionale e delle migrazioni sanitarie. È particolarmente attivo nel volontariato medico‑oncologico: ha fondato e presiede associazioni come AIMaC e FAVO e ha ricevuto riconoscimenti, tra l’altro, dall’Ordine dei Medici di Napoli. Oggi è su tutte le furie per come la ricerca con Israele venga interrotta: in quel Paese il futuro ministro della sanità si era formato, trasferendosi per sei mesi al Weizmann Institute. «Non posso credere che anni di ricerca, di collaborazione scientifica, di studi di laboratorio avanzatissimi su terreni delicati come quelli oncologici siano oggi messi a repentaglio dalla furia ideologica di qualcuno, imbevuto di propaganda», dice al Riformista.
Partiamo da lei, De Lorenzo. Da giovane arrivò in Israele con una borsa di ricerca?
«Esatto, avevo una borsa di studio dell’European Biological Organization che mi portò a lavorare nel Laboratory of Chemical Biology del National Institutes of Health, Bethesda, negli Stati Uniti, diretto da Christian C.B. Anfinsen (Premio Nobel per la Chimica nel 1992) e da lì andai poi a lavorare nei laboratori del Weizmann Institute. Christian Hansen aveva già una collaborazione molto stretta in corso con il Presidente, che era Michael Sela. Un grande ricercatore. Formammo un team. Insieme a me hanno lavorato i 2 ricercatori del Weizman Institute David Givol e Sarah Fuchs. Ho poi con loro continuato a lavorare al Weizmann Institute dal 16 giugno al Dicembre del 1966».
Nel periodo della guerra dei sei giorni…
«Dovevo partire alla vigilia della guerra. Attesi qualche giorno. Chiesi prima di partire se ci fossero dei pericoli, mi risposero che Israele, vinta la guerra dei sei giorni, era il posto più sicuro della Terra. Non avevano torto. E insieme facemmo un ottimo lavoro: abbiamo identificato e dato un nome a un enzima specifico grazie al quale sono stati possibili avanzamenti seri sul piano della ricerca scientifica. Attività che è stata rilevante e che ha poi contribuito all’assegnazione del Nobel ad Anfinsen nel 1992».
In che clima si lavorava?
«Molto serio, nella serenità. Il contesto universitario era di eccellenza. Persone molto focalizzate sul lavoro ma anche pronte a dare una mano al loro Paese. Questo mi colpì molto. Arrivai in Israele con mia moglie e mio figlio, noi molto allarmati, loro tranquillissimi. Mi spiegarono che anche durante la guerra l’attività del laboratorio era andata avanti per la sua strada. Con tutta l’autonomia necessaria: la scienza lavora a prescindere dalla politica e dalle guerre».
Perché oggi invece si vuole interrompere la collaborazione proprio con i laboratori scientici?
«Una cosa per me incomprensibile. Si vuole danneggiare la ricerca, rallentare chi cerca soluzioni per i malati oncologici? Perché? Tenga presente che il Weizmann Institute è uno di quei centri nell’ambito della cooperazione che la Commissione Europea ha stabilito con Israele, perché è un paese non facente parte d’Europa ma che fa parte, e che è chiamata a collaborare, a avere anche finanziamenti per progetti condivisi dalla Commissione Europea. Emarginare Israele sul piano della ricerca scientifica è un nonsense. Si è sempre detto: “conoscere per deliberare”. Il lavoro della medicina è quello di curare, trovare soluzioni, portare la vita a vincere sulla malattia, sul dolore e sulla morte. Su questo sono impegnati i laboratori di ricerca in Israele nella loro cooperazione con le università europee ed italiane».
D’accordo. Ma appunto, come se lo spiega?
«È una forma di odio che si basa su una degradazione massima del populismo, mortificante per i ricercatori come per tutte le persone di buon senso. Perché la scienza si basa sul valore dei risultati. E qui si tratta di ricerca biologica all’avanguardia. La furia ideologica è l’esatto opposto e pretende il trionfo dell’odio su chi lavora per la vita».
L’antisemitismo nasce sempre così, con questi presupposti. La colpisce che questa ondata provenga non dai centri sociali ma da docenti e rettori?
«Sì, molto. Mi fa pensare al decadimento che c’è stato nel tempo anche per la qualità dei docenti universitari, sui concorsi fatti a livello locale. Si è persa la qualità, lo spirito del valore etico che era sempre stato così importante nel mondo accademico».
Come se ne esce?
«Andrebbe recuperato lo spirito degli accordi di Abramo. Israele e i paesi del Medio Oriente devono dialogare costruttivamente. Ma va recuperata anche la verità storica: Israele è un paese aggredito, non un aggressore. Israele si è difeso e la sua difesa merita rispetto».
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