«Una famiglia distrutta da una perversa macchinazione giudiziaria, fatta di calunnie e veleni contro mio padre e contro di me. Lentamente si compongono i pezzi di un puzzle inquietante del quale ancora sfugge il movente». A parlare è l’avvocato Andrea Vincenti, figlio di Cesare Vincenti, ex capo dell’ufficio gip di Palermo. Il magistrato, affetto da una grave depressione, si è tolto la vita due anni fa gettandosi dal quinto piano del palazzo dove abitava. Stimato professionista, cultore del diritto, Vincenti era andato in pensione da poche settimane al termine di una carriera durata 43 anni. E macchiata, nel giugno 2018, da un’inchiesta partita dagli uffici della procura di Caltanissetta.

Il magistrato era finito sotto indagine, insieme al figlio Andrea, per corruzione e abuso d’ufficio nell’ambito del caos giudiziario che ha travolto la società Palermo Calcio. Secondo l’ipotesi dei pm nisseni, il magistrato avrebbe rivelato la notizia della richiesta di custodia cautelare avanzata dalla Procura di Palermo nei confronti dell’ex patron del Palermo Maurizio Zamparini. Che, grazie alla presunta soffiata del giudice, avrebbe lasciato ogni incarico nel c.d.a. della società rosanero per evitare l’arresto, essendo venute meno le esigenze cautelari. Prezzo della corruzione sarebbe stato un ruolo per il figlio Andrea nell’organismo di vigilanza del Palermo, guidato dall’allora presidente Giovanni Giammarva. Un incarico da 6mila euro lordi all’anno per tre anni, conferito a distanza di mesi dal rigetto della misura cautelare. Ipotesi accusatorie che si fondavano sulle intercettazioni di conversazioni di Fabrizio Anfuso, magistrato dell’ufficio Gip di Palermo, il quale, parlando con altri magistrati, si diceva convinto che “la talpa” fosse il presidente Vincenti o il figlio avvocato. Seguono quattro anni d’indagine, in mezzo il drammatico suicidio di Vincenti. Pochi giorni fa arriva l’archiviazione. Tutte le accuse nei confronti del magistrato e del figlio crollano come un castello di sabbia.

Avvocato Vincenti, che valore ha per lei e per la sua famiglia questa archiviazione?
Io e mio padre siamo sempre stati tranquilli della definizione dell’indagine, non abbiamo mai temuto risvolti di altro tipo. Avere oggi la conferma di quello in cui noi abbiamo sempre creduto, insieme ai tantissimi palermitani che ci hanno sostenuto, è importante. Questo provvedimento, però, ci lascia l’amaro in bocca.

Perché?
Perché arriva a distanza di quattro anni e dopo che mio padre ha compiuto l’estremo gesto. Che non voglio collegare direttamente all’indagine ma sicuramente questa ha influito sul decorso della sua patologia. Mio padre si è ammalato nel 2019 di una gravissima sindrome depressiva. La malattia lo ha tramutato. Ripeto: il suicidio non è direttamente connesso alle indagini, ma queste sicuramente hanno causato un peggioramento delle sue condizioni fi siche e psichiche. I medici che seguivano mio padre ripetevano sempre che con questo pensiero era “impossibile venire fuori dalla depressione’.

E suo padre cosa diceva?
Era fermamente convinto della sua innocenza. Ma lo struggeva la consapevolezza di non essere in grado di difendersi. Mi diceva sempre che se fosse stato bene, difendersi sarebbe stato semplice perché le accuse erano del tutto campate in aria. Ma la sua patologia gli impediva di difendersi. La depressione incide sulla capacità di concentrazione, sulla memoria: prima della malattia mio padre era un vero computer: snocciolava massime in latino come se fosse stata la sua prima lingua, difficilissimo trovarlo impreparato su qualcosa. È stato terribile vederlo tramutato dalla malattia, incapace di fare fronte anche alle più semplici problematiche quotidiane. Per questo chiese la pensione anticipata, consapevole di non essere più in grado di svolgere il suo lavoro come l’aveva svolto fino a quel momento. Lo tormentava sapere di essere vittima di una macchinazione giudiziaria perversa.

Le accuse di Anfuso, però, nelle intercettazioni sono gravissime.
Gravissime e tutte prive di fondamento. L’indagine parte da un’intercettazione che riguarda Anfuso, indagato per la fuga di notizie per la vicenda del Palermo Calcio. La procura di Caltanissetta capta lui e altri magistrati. Parlando coi colleghi, ritengo nella consapevolezza di essere intercettato, Anfuso dice: “la talpa è sicuramente il presidente (Vincenti, ndr) o quel delinquente del figlio (Andrea, ndr) che ha interessi ovunque”. Anfuso, che non ho mai incontrato e ho già nel 2019 denunciato per calunnia, si lascia andare a numerose vergognose illazioni contro mio padre e contro di me, inventa una serie di teoremi privi di fondamento, getta fango su mio padre e su noi familiari, destando anche sorpresa nei suoi interlocutori, anch’essi intercettati. Ne emerge un quadro abominevole che determina la perquisizione domiciliare a casa di mio padre e nel mio studio. Dalla gravità delle calunnie non poteva che scaturire una doverosa indagine che, probabilmente, poteva essere gestita con maggiore cautela, anche mediatica, visto lo stato di salute di mio padre. Era il caso di disporre una perquisizione domiciliare per fatti commessi un anno prima a casa di una persona gravemente malata? Lo strumento investigativo è stato proporzionato all’ipotesi di reato e al compendio probatorio alla base dell’indagine?

Che risposte si è dato?
Ritengo di no. Riporto un esempio. La perquisizione nel mio studio mi ha dato la evidente sensazione che l’indagine fosse esplorativa. Come se gli investigatori e i pm cercassero un reato e non la prova del reato.

Sta dicendo che c’era dell’altro in quell’indagine?
L’indagine parte dal disegno calunnioso lentamente perpetrato da uno o più colleghi di mio padre. In questo quadro deve leggersi quell’altra vicenda vergognosa che ci vide nostro malgrado protagonisti: ovvero quando, nell’ambito dello scandalo Saguto, trapelò ai giornali la notizia che avevo acquistato da una concessionaria all’epoca in amministrazione giudiziaria, un’auto “a prezzo di favore”, in quanto figlio di Cesare Vincenti, ex presidente della Sezione Misure di Prevenzione di Palermo. In quel caso non partì alcuna indagine, ma i nostri nomi vennero accostati a quelli degli indagati per una settimana, nonostante avessi inviato ai giornali identico preventivo chiesto ad una concessionaria di Roma, più basso di alcuni euro. Quella vicenda dispiacque molto a mio padre e non posso escludere che abbia gettato le basi della sua depressione, esplosa pochi anni dopo.

Perché questo accanimento contro suo padre? Che idea si è fatto?
Credo che il fatto che mio padre abbia svolto il suo ruolo di magistrato in modo autonomo, riservato, schivo, gli abbia procurato molte inimicizie tra alcuni dei suoi colleghi. In un sistema in cui il potere giudiziario non prevede meccanismi di controllo, l’unico argine è costituito da chi sa dire di no, opponendosi a condotte che, anche se non penalmente rilevanti, lo sono sicuramente moralmente. E qualcuno ha deciso di fargliela pagare nel peggiore dei modi, ovvero calunniandolo, delegittimando il suo operato.

E perché mettere in mezzo anche lei?
Io svolgo a Palermo da quasi 18 anni la professione di avvocato di diritto societario, oltre che quella di docente universitario. Fin troppo facile per un calunniatore collegare i miei successi professionali al lavoro svolto da mio padre. Ecco perché il mio nome figura così spesso nelle intercettazioni. Sono comunque sicuro, così come la Palermo che ha conosciuto e stimato mio padre, che molto presto verrà chiesto il conto a chi ha infangato mio padre e me.

Cosa resta di questa vicenda?
Purtroppo ne emerge un quadro di certa magistratura palermitana sconfortante. Papà mi disse, in una delle nostre ultime conversazioni, che la legittimazione è figlia della professionalità. Credo che questa affermazione, che condivido, oggi debba scuotere molte coscienze.