«Non ce la faccio più, non posso andare avanti così. Ma credetemi, non è per l’indagine». Tra le poche righe scritte su un biglietto con la solita indecifrabile calligrafia, spicca questa frase nelle parole di addio, lasciate su carta, ad una vita nell’ultimo anno devastata da un mal di vivere insopportabile. Ha deciso di andarsene così, lucidamente, il giudice Cesare Vincenti, ex capo dell’ufficio gip di Palermo, togliendosi la vita giovedì scorso verso le 12. Il salto dal quinto piano della sua abitazione in via Sciuti non gli ha lasciato scampo. Stimato professionista, cultore del diritto, magistrato infaticabile e dalle spiccate doti umane, Vincenti era andato in pensione da poche settimane al termine di una carriera durata 43 anni, sempre lontana dal clamore mediatico. E macchiata, lo scorso giugno, da un’inchiesta partita dagli uffici della procura di Caltanissetta. Vincenti era finito sotto indagine, insieme al figlio avvocato e professore di diritto commerciale Andrea, per corruzione e abuso d’ufficio nell’ambito del caos giudiziario che ha travolto la società Palermo Calcio. Secondo l’ipotesi dei pm nisseni, il magistrato avrebbe rivelato la notizia di custodia cautelare nei confronti dell’ex patron del Palermo Maurizio Zamparini che, grazie alla presunta soffiata del giudice, avrebbe poi lasciato ogni incarico nel cda della società per evitare l’arresto. Il giudice in cambio avrebbe chiesto per il figlio Andrea un ruolo nell’organismo di vigilanza della società rosa nero, guidata dall’allora presidente Giovanni Giammarva. Un incarico da 6 mila euro lordi all’anno per tre anni. Accuse tutte da dimostrare ma che a livello mediatico hanno fatto scoppiare una bomba dagli effetti devastanti: «Mio padre visse molto male la notizia. Nella sua lucidità era consapevole che il suo malessere non gli avrebbe consentito di sfruttare appieno le sue capacità mentali», spiega il figlio Andrea. «Sapeva – aggiunge – che l’indagine non avrebbe avuto seguito perché infondata, ma se fosse stato rinviato a giudizio, la sua paura era quella di non potersi difendere a causa della malattia. Questa cosa lo deprimeva ancora di più e si corrodeva giorno dopo giorno nonostante le mie rassicurazioni».

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La malattia da un lato e l’isolamento dall’altro. Tre settimane fa, in occasione del pensionamento, Vincenti aveva organizzato nel suo ufficio una piccola festa di commiato. Tra quelle mura, però, erano pochissimi i magistrati: «È vero, sicuramente c’erano pochi colleghi di mio padre», conferma il figlio Andrea. «C’era tutto il personale tecnico-amministrativo, molti avvocati, ma tutto sommato non c’è stata una partecipazione massiva. L’indagine a suo carico, in tal senso, avrà influito ma credo che questo derivi anche dal fatto che mio padre fosse schivo, abbia vissuto il suo lavoro con una serietà tale da renderlo avulso da logiche che non fossero fermamente legate allo svolgimento del suo mandato. Questo lo ha reso, forse, poco parte di un sistema».
Un sistema che, tuttavia, si è stretto attorno alla figura del giudice solo dopo la sua morte. Tra le panche in legno della gremita chiesa San Francesco di Paola – dove venerdì scorso hanno avuto luogo i funerali – la rappresentanza di avvocati e magistrati è stata nutrita. E le frasi pronunciate dal prete Antonio Porretto, durante l’accorata omelia, hanno avuto il sapore di un amaro ammonimento: «Non sei l’unico morto, chissà quanta gente qui non sa amare, non sa perdonare», tuona rivolgendosi al feretro del giudice. «Ricordati – aggiunge – anche di quelli che in vita non ti hanno voluto tanto bene, hanno tempo per convertirsi. Perché c’è luce oltre il puzzo della morte».

Nei giorni scorsi in tanti hanno lacrimato parole di cordoglio e di vicinanza nei confronti della famiglia di Cesare Vincenti. L’avvocato Stefano Giordano su Facebook ha scritto che «il gesto del galantuomo presidente Vincenti sembra essere un gesto di un uomo d’altri tempi, che si ribella contro l’ipocrisia di un mondo in cui lui era controcorrente». Un altro avvocato, Antonio Tito, lo ha ricordato come «un ottimo magistrato, un uomo integerrimo e perbene». Il presidente del tribunale del capoluogo, Salvatore Di Vitale ha definito la scomparsa di Vincenti «un grave lutto per la magistratura italiana». La Camera penale di Palermo, invece, ha morso: «Tale evento costituisce la conseguenza di un perverso circuito mediatico-giudiziario che travolge vita e affetti senza alcun discernimento. Il principio costituzionale di non colpevolezza è un segno di civiltà che dev’essere richiamato e ribadito in simili momenti drammatici». Adesso, in caso di rinvio a giudizio, toccherà al figlio Andrea difendersi e difendere la memoria del padre: «C’è stato un certo accanimento nei confronti della mia famiglia. E, in fondo, sono contento di essere indagato perché, se si andasse a processo, dimostrerò la mia innocenza e quella di mio padre. Se non fossi stato indagato anche io, il procedimento, con la morte di mio padre, si sarebbe estinto e qualche malpensante avrebbe potuto legare il gesto all’indagine. Per fortuna ci saranno tempi e luoghi per rendere giustizia, la stessa alla quale mio padre ha creduto per tutta la sua vita». Fino alla resa ad una malattia «che l’aveva profondamente cambiato».

Giorgio Mannino

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