Storia del luglio 1960, quando l’antifascismo divenne nuovamente un valore

“Avevamo vent’anni”, come nella splendida canzone di Italo Calvino e Sergio Liberovici, scritta un anno prima. Ma in quel luglio del 1960, noi non potevamo recitare la parte del padre partigiano, come nella ballata, bensì quella dei suoi destinatari. Eravamo «i figli che non sanno la storia di ieri», ma già non eravamo più la «ragazza color dell’aurora». In quei giorni, avevamo perso l’innocenza, ma avevamo scoperto la classe operaia. L’innocenza ce l’aveva rubata quello Stato che mandava sulle piazze della rinascita dello spirito repubblicano la polizia a picchiare, colpire, sparare per reprimere la rivolta contro un intollerabile oltraggio, per reprimere la speranza. Proprio quella della canzone di Calvino: «E vorrei che i nostri pensieri, quelle nostre speranze di allora rivivessero in quel che tu speri, o ragazza color dell’aurora».

Siamo stati la generazione delle magliette a strisce, una definizione che la dice lunga sulla natura della stessa, quando è avvenuta l’irruzione sulla scena politica e sociale di un nuovo protagonista, che non si definisce per una bandiera, per un simbolo, un’appartenenza, quando pure la bandiera, il simbolo e l’appartenenza avevano una grande forza. Questo nuovo protagonista si definisce per la sua presenza fisica nella piazza, lì conosce e lì si riconosce. A comporre lo straordinario mosaico di quel Sessanta, sono tante le tessere: c’è il ritorno influente dei capi della Resistenza partigiana, Resistenza che sembrava lontana, ma da cui ci dividevano solo 15 anni; c’è l’impegno unitario dei partiti della sinistra, forse mai così determinati, come si evince dal Manifesto che a Genova invita alla mobilizzazione popolare, firmato insieme da comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani e dall’impegno dei radicali.

C’è il protagonismo nuovo delle organizzazioni giovanili dei partiti della sinistra e delle realtà studentesche e universitarie, ma c’è potente anche la mobilitazione della Cgil, a partire dalla Camera del lavoro di Genova. Tanti fiumi affluiscono nel gran mare del conflitto che investe le strade e le piazze delle città che si uniscono alla rivolta di Genova, sono le piazze di una nuova Italia. Una composita marea montante che la repressione più violenta non riesce a fermare e che va fino alla vittoria. Vi concorrono molte storie diverse. Le grandi organizzazioni del movimento operaio, in primo luogo, ma due tratti caratterizzano e influenzano ogni sua componente: sono l’irruzione nel movimento di una nuova generazione politica e la rinascita essenziale per il movimento dell’antifascismo. È lì che si apre, nella storia del dopoguerra italiano, una linea di faglia incontenibile.

Gli anni Cinquanta vengono chiusi e, con essi, l’assetto conservatore reazionario del centrismo, che aveva governato la politica del Paese. Tutto si riapre. Era accaduto l’imprevisto, proprio quello che, quando si produce, cambia il corso delle cose. L’aveva provocato, senza minimamente prevederlo, la scelta provocatoria e irresponsabile del Msi, sostenuta dal governo Tambroni, di tenere il suo congresso a Genova. Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, è la città nella quale il 25 aprile 1945 il generale tedesco Meinhold firma la resa del suo esercito nelle mani dell’operaio Remo Scappini.

La scelta dei fascisti era di certo provocatoria e irresponsabile, ma non il frutto di una distrazione, di un errore. I fascisti, arrivati a sostenere il governo democratico-cristiano, alzavano la posta in gioco, tentando lo scacco definitivo ad un antifascismo indebolito dalle politiche dei governi e delle forze moderate e anche da un certo oblio (ricordate quel «I figli che non sanno più la storia di ieri»? Ma anche quel «Di chi si è già scordato di Duccio Galimberti» proprio nella canzone Per i morti di Reggio Emilia). La democrazia cristiana, perno del sistema politico e di tutti i governi, era attraversata da grandi e ancora incontrollate contraddizioni, era incerta e oscillante.

Tambroni, il suo nuovo presidente del Consiglio veniva dalla sinistra Dc, ma accoglieva in Parlamento il voto dei fascisti per far vivere il suo governo. L’annuncio della sua autorizzazione al Congresso del Movimento Sociale Italiano a Genova è immediatamente contestato. Lo fa per primo, già il 2 giugno, Umberto Terracini, colui che era stato il Presidente dell’Assemblea Costituente. Il 5 giugno, l’Unità pubblica una lettera aperta di un operaio genovese che chiama la città alla ribellione; il 6 giugno c’è l’appello unitario a Genova di tutta la sinistra contro la “grave provocazione”. Il 13 giugno, la Camera del lavoro chiama i lavoratori alla mobilitazione, il 15 giugno è la prima grande manifestazione di piazza e già cominciano i primi duri scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti. Lo Stato dei governi neocentristi e le sue forze di polizia e i carabinieri non tollerano le manifestazioni e i manifestanti, non tollerano la democrazia partecipata.

Il loro ordine è quello della morte civile. I manifestanti, al contrario, si riappropriano di «quella nostra speranza di allora» e la fanno rivivere nell’Italia che sta entrando nella grande modernizzazione del neocapitalismo. Lo scontro è senza possibili mediazioni, è aspro, potente, drammatico. Il suo centro è la piazza, il suo protagonista principale è il movimento di lotta, il suo canone è la rivolta. Dentro, accanto al protagonista politico-storico, ce n’è uno nuovo, c’è una nuova generazione politica. Bisogna ricordare e studiare quelle giornate per poterne intendere la forza della rottura, la potenza della piazza, la forza dei discorsi dei leader storici della sinistra.

Bastino qui alcune date: il 25 giugno a Genova scendono in campo i portuali, sono la personificazione fisica della forza della protesta; il 28 giugno, Sandro Pertini riporta alla memoria il suo comizio in piazza del Duomo, nella Milano liberata il 25 aprile del ’45, è un discorso durissimo, sarà, diranno i genovesi, “u’ brichettu”, il fiammifero dell’incendio, quello che fa compiere il salto di qualità alle manifestazioni. Alla polizia che chiede di rendere pubblici i nomi dei “sobillatori” della manifestazione, Pertini risponde facendo i nomi dei fucilati partigiani delle montagne genovesi, dei torturati nella Casa dello studente e denunciando la ferocia dei loro torturatori fascisti. Lo ascolta una folla imponente.

Il 30 giugno è il giorno dello sciopero generale proclamato dalla Camera del lavoro, la partecipazione è generale, le piazze e le strade di Genova si riempiono di operai, di donne, di uomini e di cittadini, i giovani le invadono, gli scontri sono violenti, la polizia fa ricorso, oltre che ai lacrimogeni, alle armi da fuoco. I caroselli delle camionette della celere imperversano nelle piazze, nelle strade, nei carrugi, ma i manifestanti non si fanno cacciare, non arretrano. Alcune camionette vengono persino bruciate sulla piazza, la lotta è senza precedenti e contagia il Paese, da Torino a Milano, a Roma, a Livorno, a Ferrara. Il governo Tambroni è ormai sotto l’assedio democratico. Il Primo luglio si producono nuovi scontri in diverse parti del Paese, a partire a Torino; il 2 luglio dovrebbe essere il primo giorno del Congresso del Msi a Genova. La Camera del lavoro convoca lo sciopero generale, il Msi, sotto una pressione ormai irresistibile, annulla il Congresso.

Lo sciopero è fermato e il 3 luglio, una gigantesca manifestazione saluta il risultato con il ritorno dei padri: Luigi Longo, Umberto Terracini, Pietro Secchia, Franco Antonicelli, Domenico Riccardo Peretti Griva prendono la parola. Sembra il passaggio di testimone e per i tanti giovani che li ascoltano, quelli delle magliette a strisce, è l’inizio di una storia tutta da farsi, potendo però camminare sulle spalle dei giganti. Come sempre, quando si fa realtà l’imprevisto, politica, cultura, società e lotta di classe si mescolano fino a formare un materiale generatore di nuova soggettività politica e di cambiamento radicale. La lotta e gli scontri si moltiplicano ancora: il 5 luglio a Licata, un morto e 24 feriti, intanto sedi di partiti e case di antifascisti vengono presi di mira dai fascisti imbestialiti; a Roma, una manifestazione è vietata, ma ugualmente organizzata dalle forze di sinistra e viene cariata potentemente dalla polizia a cavallo.

La polizia continua ovunque nella sua violenta opera di repressione. Il suo culmine tragico è il 7 luglio, durante un’imponente manifestazione sindacale a Reggio Emilia, la polizia e i carabinieri sparano sulla folla, provocando 5 morti. Lo shock è enorme. Il presidente del Senato Merzagora chiede e ottiene la tregua, mentre nello stesso giorno, ancora a Palermo, si registrano due morti e centinai di feriti, e un morto ancora a Catania. Ma per il governo dell’infamia, dopo la sconfitta sul campo dei fascisti, è ormai finita. Il 19 luglio il governo Tambroni si dimette. Della strage di operai a Reggio Emilia non si perderà la memoria grazie alla canzone di Fausto Amodei Per i morti di Reggio Emilia, che la fisserà insieme all’impegno di quelle generazioni.

Ma chi erano quei giovani, prima che le loro magliette a strisce diventassero il simbolo di una nuova generazione politica? Erano ragazze e ragazzi immersi nel loro tempo, da questi se ne distanziava solo una minoranza critica che dall’Ugi ai movimenti giovanili dei partiti della sinistra, ai cineforum, ai luoghi della cultura altra, si veniva formando in autonomia. La gran parte di essi, invece, solo per essere dentro il suo tempo, era apostrofata perlopiù come poco interessata all’impegno e alla politica, o addirittura, come per una parte della popolazione studentesca con gli scioperi per Trieste italiana, considerata distante dalla politica della sinistra del Movimento operaio. Si scoprì sulla piazza che le magliette a strisce erano la gran parte degli studenti medi e universitari e tanti, tantissimi giovani operai.

Un grande intellettuale, un maestro disse di loro, e certo non benevolmente, che si erano venuti assomigliando, eppure quell’evento li calamitò. Un’onda si sollevò da quel moto di piazza e li trascinò all’azione e li cambiò nel fondo. Incontrarono in piazza fisicamente gli operai e furono colpiti della loro unione, dalla loro forza, dagli ideali che li muovevano e che apparvero così giusti da essere condivisi e partecipati. Conobbero nello scontro le istituzioni del Movimento operaio, il sindacato di classe, il Partito operaio e parve anche a loro che non se ne potesse fare a meno. Donne e uomini che guidavano lo scontro di piazza, che organizzavano la partecipazione alle manifestazioni sembravano loro i nuovi eroi popolari.

Le loro parole d’ordine, le loro insegne, le loro bandiere, i loro canti erano subito diventati anche i propri. Quando da quella moltitudine emersero i nuovi “quadri”, essi formarono organizzazioni come “La nuova Resistenza” e si incamminarono per la via di una “militanza organica”, “militanti a tempo pieno”, come si diceva allora. Entrarono nel sindacato e nel partito per restarvi. Troppo ambizioso rifarsi al titolo di un libro famoso di Giorgio Amendola, Una scelta di vita. Ma certo, quella generazione, nata dal luglio del Sessanta, portò con sé, oltre a una maglietta a strisce, quello che il Che chiamò la politica come “una passione durevole” e, come sempre in Italia nei momenti acuti, l’antifascismo tornava a proporsi come il campo di ricerca privilegiato e di lavoro politico.

Avevano visto materializzarsi gli esempi umani e politici a cui riferirsi. Erano tornati lì, davanti e insieme a loro, i monumenti viventi della Resistenza, Terracini e, per altro verso, Pertini. A me piace ricordare Franco Antonicelli, un intellettuale raffinato, che era stato persino precettore degli Agnelli, un protagonista di quei licei torinesi da cui, durante il dominio fascista, uscirono tra i più straordinari uomini del carcere, del fuoriuscitismo e della Resistenza. Un uomo, Franco Antonicelli, che con una leggerezza calviniana e con la sua eleganza ci invitava e guidava alle dure manifestazioni di piazza. E attorno a noi, prima e poco dopo il Sessanta, prendevano corpo i semi del cambiamento che si annunciavano anche su altri terreni. Nel 1961 a Torino nascevano i Quaderni rossi, forse la più importante rivista di teoria e di pratica politica che, a partire dalla scoperta della centralità operaia, ha puntato a cambiare il paradigma stesso della sinistra politica per operare l’attualizzazione della rivoluzione.

Ma sempre nella Torino dell’avvento dell’operaio comune di serie e immigrato, già nel ’57, nascevano i “cantacronache”, con la riscoperta dei canti di protesta del popolo e con una nuova produzione di canzoni contro. Il rovescio di Sanremo. Anche nel teatro e nel cinema si avvertiva che il vento poteva cambiare, Milano in testa. Era proprio il triangolo industriale del boom economico, come il Sud dei braccianti, che cominciava a non stare più nella pelle di quel sistema. La radicalmente innovativa lotta degli elettromeccanici a Milano portava i metalmeccanici in sciopero a fare, nel dicembre del 1960, in piazza del Duomo, il primo Natale diverso per il mondo del lavoro. Poco tempo dopo, nel 1962, gli operai della Fiat, dopo uno sciopero ancora fallito, tornarono per la prima volta, dopo 9 lunghi anni, allo sciopero riuscito con una partecipazione di massa, una vera svolta. Dovunque in Italia, prendeva corpo un nuovo conflitto sociale e politico, i vecchi assetti si incrinavano irrimediabilmente.

Meriterebbe una riflessione approfondita, un rapporto che a prima vista potrebbe apparire paradossale, ma non lo è, quello tra la rottura del luglio del 1960, così profonda e radicale, e la nascita del più importante tentativo di riformismo dall’alto sperimentato in Italia, col governo di centrosinistra costruito sull’alleanza tra socialisti e democristiani negli anni immediatamente successivi. Anche chi, come chi scrive, è stato contrario a che il Psi si mettesse in quell’operazione, sembra ora impossibile mettere in dubbio il rapporto tra i due avvenimenti.

Un rapporto che, tuttavia, dovrebbe essere indagato anche alla luce dell’esperienza di quel governo di centro-sinistra, sia rispetto alle sue importanti realizzazioni, dalla riforma della scuola media alla nazionalizzazione dell’industria elettrica, sia rispetto alla sua involuzione moderata, fino al suo fallimento strategico rispetto all’obiettivo della trasformazione della società.

Sarebbe uno dei suoi più lucidi protagonisti, Riccardo Lombardi, ad offrirci a questo scopo ancora un buon punto di avvio per la ricerca. Ricerca che, peraltro, non si esaurirebbe nel rapporto che c’è tra il luglio del 1960 e la messa in campo dell’ipotesi riformista, ma che si allunga fino a doverci chiedere di indagare il rapporto con un ancora più grande imprevisto, quello che diede luogo al biennio rosso ‘68-’69, che verrà un decennio più tardi.

4/continua