Millenovecentosessanta. Il governo Fanfani II è stato affondato dai “franchi tiratori”, democristiani a lui ostili. Il 9 marzo Segni è incaricato di formare il nuovo governo; il 21 rinuncia. L’incarico (per un governo “a tempo”, fino alla fine dell’anno) viene trasferito a Tambroni che ottiene la fiducia alla Camera con 300 voti favorevoli e 297 contrari; determinanti i voti del Msi. Per questo, l’11 aprile Tambroni si dimette. Ci prova di nuovo a Fanfani; il 22 dello stesso mese, però, rinuncia a sua volta. Gronchi invita Tambroni a presentarsi al Senato per completare l’iter della fiducia; la ottiene anche lì, sempre con l’appoggio dei missini. Il 30 giugno durissimi scontri a Genova fra la polizia e decine di migliaia di manifestanti scesi in piazza per impedire lo svolgimento del congresso del Msi nella città medaglia d’oro della Resistenza. Il 2 luglio l’annuncio che il congresso del Msi non si terrà a Genova. Il 5 luglio c’è un morto a Licata. Il 6 luglio nuovi scontri a Porta San Paolo a Roma. Il giorno dopo a Reggio Emilia la polizia spara sui manifestanti: cinque morti e decine di feriti tra la popolazione. L’8 due morti a Palermo e uno a Catania. Il 19 luglio Tambroni si dimette ed è sostituito, il 26, da Fanfani.

Questa la cronaca. Il luglio 1960 fu un passaggio cruciale nella ​storia della politica​ della prima repubblica. È in questa ottica che si devono valutare quegli avvenimenti; altrimenti si corre il rischio di indulgere a letture propagandistiche e agitatorie, fotocopie più o meno sbiadite delle polemiche di allora. C’è chi si chiede – ad esempio – se la protesta delle forze dell’antifascismo democratico contro il connubio con il Msi non sia stata un favore al Pci, quindi di per sé un errore; come se fosse possibile fare la storia dell’Italia repubblicana cancellando il Pci. D’altra parte, non basta certo esaltarsi nel ricordo di una lotta popolare, di un “risveglio giovanile” che pure ci furono. La “Nuova resistenza” di cui allora si parlò, è uno slogan efficace, funzionale a una precisa strategia politica: portare a termine la rivoluzione democratica e antifascista, iniziata – appunto – con la Resistenza del 43/45: intento comprensibile e – se vogliamo – apprezzabile; certo non criterio di interpretazione storica.

La specificità del luglio ‘60 è il confronto fra la Dc da una parte e ​tutte​ le sinistre dall’altra. Nel corso della prima repubblica è stata, forse, la sola occasione in cui ciò sia avvenuto sul terreno concretamente politico, e non come ipotesi propagandistica. Nel corso di quel passaggio si è dimostrato che la sinistra, riducendo la conflittualità al suo interno, poteva riuscire a condizionare la Dc; e la Dc ha sperimentato che, se non avesse dato una efficace risposta politica e strategica, avrebbe rischiato di perdere il primato politico e perfino di mettere in pericolo la sua unità. L’esito di quel confronto è stato la archiviazione definitiva del centrismo. L’antifascismo ebbe certamente un peso, alimentò un vasto moto di protesta. Ma il fattore antifascista fu una “complicazione” scaturita dalla estenuante ritrosia della Dc a dare corso alle nuove relazioni politiche di cui lei stessa vedeva la utilità e la ineluttabilità. Quando comincia la terza legislatura dopo il voto del 25 maggio 1958, repubblicani e socialdemocratici, ciascuno per motivi e con obiettivi propri, non sono più disponibili per il centrismo: lo hanno detto e dimostrato. In particolare i secondi si rendono conto che è impossibile sbarrare la strada al Psi che, dopo il 1956, non può più essere presentato come un partito “a sovranità limitata” rispetto al Pci.

I protagonisti diretti, e tutti gli attori sulla scena non si domandano più ​se​ giocare la partita della “apertura a sinistra”, ma ​come​ farlo; cercano di posizionarsi e di equipaggiarsi nel modo migliore. Se ne ha la prova nei congressi del Psi, della Dc e del Pci, che si susseguono a pochi mesi uno dall’altro. Il Psi, nel XXXIII congresso (Napoli gennaio 1959) non dovette far altro che confermare e sottolineare quanto aveva già elaborato e detto negli anni precedenti. Quel congresso produsse, però, una novità significativa: la nuova direzione del partito (14 persone) fu composta solo da esponenti “autonomisti”, che condividevano, cioè, le posizioni di Nenni beneficiarie del 58% dei voti congressuali. Il Psi dice, così, di esser pronto, non solo politicamente, ma anche “operativamente”. A settembre, nel Comitato centrale dichiara che garantirà l’appoggio esterno a un governo che chiuda sul fianco destro. Il messaggio è rivolto al Congresso Dc che si riunirà qualche settimana dopo.

Il 24 ottobre a Firenze, Moro, per la prima volta in veste di segretario della Dc, apre il VII congresso. Coloro che hanno determinato la caduta del governo Fanfani – che, avrebbe dovuto avviare l’apertura al Psi – vengono da lui bollati come «autori del tradimento non ad un uomo, per quanto benemerito, ma alla Dc, all’elettorato, al Paese che ha bisogno di tutta la forza della Dc». Il riscontro, per il Psi è sì positivo, ma anche molto impegnativo; Moro chiede ai socialisti di pronunciarsi chiaramente sul carattere ​politico​ della alleanza. Nenni lo capisce e, nel Comitato centrale dell’8 febbraio 1960, chiude il ragionamento: per evitare soluzioni a destra – dice – il Psi deve impegnarsi con le forze laiche e con la Dc nella costruzione di una maggioranza autosufficiente.

Il IX Congresso del Pci si riunisce a Roma ai primi di febbraio del 1960. Togliatti, nella relazione, prende le mosse da una approccio rigorosamente “programmatico”. Una nuova maggioranza, dice, richiede si passi «dalle indagini astratte di possibili o impossibili combinazioni parlamentari, concessioni, tolleranze e così via, al suo vero terreno, che è quello della ricerca di un ​indirizzo​ programmatico.» – I programmi del Psi non sono lontani da quelli del Pci; che, dunque, nel perseguire la loro attuazione, può esercitare il massimo di influenza e far pesare la sua forza. Ed è conveniente per Togliatti distogliere l’attenzione dalle motivazioni politiche del convergere fra Dc e Psi, imbarazzanti da affrontare in quanto connesse con i motivi che rendono impraticabile al Pci la via del governo. Ma il Pci non può evitare di pronunciarsi anche sulla specifica questione politica che domina la scena nazionale e che ha occupato i lavori dei congressi socialista e democristiano. La mozione conclusiva del congresso, dopo aver elencato sei punti programmatici definiti irrinunciabili, afferma senza alcuna ambiguità: «i comunisti dichiarano di essere disposti ad appoggiare un governo che dia alle forze popolari garanzia di realizzare questo programma; ​anche se ad esso partecipi il Psi e non il Pci​».