I percorsi della Storia sono meno lineari e meno trasparenti di quanto non venga poi restituito ai posteri dal mito. Il governo monocolore democristiano guidato da Fernando Tambroni e rimasto in carica per meno di 4 mesi, dal 26 marzo al 19 luglio 1960, è passato alla storia come il solo serio tentativo di ritorno al potere dei fascisti abbattuti 15 anni prima. Quel governo fu spazzato via da un’ondata di popolo, da una rivolta di piazza che dilagò in tutto il Paese nella quale l’eredità antifascista di un passato ancora recente si intrecciava con le prime scintille della grande rivolta operaia, giovanile e studentesca che avrebbe incendiato il Paese alla fine del decennio. Eppure alle origini di quella esplosione che insanguinò l’Italia non c’erano trasformisti di estrema destra che avevano camuffato l’orbace sotto il biancofiore in attesa del momento giusto per rivelarsi. C’era un capo dello Stato, Giovanni Gronchi, il primo democristiano a insediarsi sul Colle, che aveva solide radici nella sinistra Dc e brigava casomai perché il Parlamento imboccasse la direzione opposta, quella di una maggioranza di centrosinistra con i socialisti. Lo stesso presidente del Consiglio il cui nome è ormai indissolubilmente vincolato a quello del Msi, il partito neofascista i cui voti erano stati determinanti per la nascita del disgraziato governo, era stato sino a quel momento uomo della sinistra Dc, vicinissimo al presidente Gronchi, favorevole a un’apertura non a destra ma a sinistra.

Non che i due uomini politici possano essere messi sullo stesso piano. Gronchi era uno dei padri del partito nato dalle ceneri del partito popolare di don Sturzo. Dirigente di quel partito, “aventiniano” durante la crisi Matteotti aveva abbandonato la politica negli anni del regime. Ma il 29 settembre 1942 era in casa dell’industriale milanese Falck, per la riunione ristrettissima da cui prese le mosse la nuova Dc, presente anche De Gasperi. Nella Repubblica era stato ministro e presidente della Camera. Capo dello Stato insofferente dei limiti istituzionali e favorevole a una impossibile “equidistanza” tra i blocchi, Gronchi era entrato spesso in conflitto anche molto duro con i vertici del suo partito, soprattutto per le iniziative solitarie e di solito fallimentari in politica estera. Ma era anche stato uno dei grandi sostenitori della politica terzomondista del presidente dell’Eni Mattei e tra i principali artefici dell’apertura al Psi. Fernando Tambroni, avvocato con natali ad Ascoli Piceno, 59 anni al momento della sciagurata avventura a palazzo Chigi, era una figura ben più torbida.

Nel ‘26 era stato fermato per antifascismo e aveva capito al volo l’antifona. Si era iscritto al Pnf, era diventato ufficiale della Milizia, salvo passare dall’altra parte della barricata, senza però mai aderire alla Resistenza, in un momento imprecisato fra il 1943 e il 1945. Nella Dc era considerato quasi un corpo estraneo e aveva in effetti molto dell’avventuriero politico ma sapeva muoversi , portava in dote parecchi voti e si era legato proprio a Gronchi. Al Viminale, dove guidò il ministero degli Interni dal 1954 al 1959, la gestione Tambroni lasciò un segno destinato a condizionare poi a lungo la vita politica italiana. E’ lui il padre fondatore del dossieraggio, l’uso di accumulare dossier segreti sugli esponenti politici e poi usarli per condizionarne le scelte politiche. «Io a quello gli leggo la vita» era la sua frase abituale e non si trattava solo di millanteria. Quando l’ex ministro degli Interni ed ex primo ministro Mario Scelba preparava una scissione della Dc per protesta contro l’ipotesi di accordo con il Psi, Tambroni lo convinse a desistere grazie alle foto che lo ritraevano con l’amante.

Sul suo tavolo finirono persino le sue stesse foto, con Sylva Koscina, sua amante e attrice in quel momento celebre. Quelle però finirono nel subito nel cestino. Nonostante la disinvoltura nell’abuso del dossieraggio e nonostante il pugno duro più volte dimostrato al Viminale, Tambroni resta sino all’ultimo esponente della sinistra. Al congresso Dc del 1959 è lui a incaricarsi del discorso più esposto a favore del centrosinistra e di una maggioranza con il Psi. Gronchi decise di incaricare lui di formare una specie di governo ponte, dopo la crisi del secondo governo presieduto dal democristiano e futuro presidente della Repubblica Antonio Segni. L’obiettivo era in tutta evidenza quello di permettere all’accordo con il Psi di maturare, evitando un vuoto di potere che sarebbe stato esiziale in quel 1960.

Non era un anno come tanti. In agosto si sarebbero tenute proprio in Italia le Olimpiadi, occasione eccezionale di lasciarsi definitivamente alle spalle ogni ombra del passato per un Paese che era stato fascista e sconfitto in una guerra ancora recente. I lavori per mettere soprattutto Roma in grado di ospitare la XVII edizione dei giochi olimpici non potevano proseguire in una situazione di crisi prolungata. Gronchi, inoltre, subiva l’influenza del capo dei servizi segreti, il Sifar, generale De Lorenzo, che lo aveva addirittura convinto di essere al centro di una inesistente congiura per rapirlo e, nonostante le posizioni di sinistra, tendeva sempre più a fidarsi di figure come lo stesso De Lorenzo o appunto Tambroni.

Fu quindi proprio quest’ultimo a ricevere l’incarico per dar vita a una specie di governo provvisorio, che avrebbe dovuto occuparsi solo di gestire le Olimpiadi e varare la legge di bilancio prima di passare la mano nell’auspicio che nel frattempo le resistenze interne alla Dc al governo con i socialisti sarebbero state vinte. L’8 aprile 1960 Tambroni presentò alle Camere il suo governo monocolore. Il suo discorso fu molto diverso da quello che ci si aspettava. Nessun richiamo al carattere “a termine” del suo esecutivo. Scomparsi i richiami all’orizzonte di un’alleanza con i socialisti. Insistenza sui temi della difesa della legge e dell’ordine. E’ probabile che Tambroni, arrivato alla guida del governo grazie al sostegno e alla fiducia del presidente della Repubblica, avesse in mente un suo autonomo schema di gioco. Di certo fantasticava su una impossibile maggioranza che escludesse solo i comunisti. Ottenne la fiducia, a Montecitorio, con soli tre voti di scarto.

Il voto dei deputati del Msi alla Camera fu determinante. Non era in realtà la prima volta. Nel giugno 1957 il governo presieduto dal Dc Adone Zoli aveva ottenuto, per un solo voto, la fiducia, grazie all’appoggio del Msi. Aveva pertanto rassegnato le dimissioni ma, nell’impossibilità di dar vita a un nuovo governo, era comunque rimasto in carica sino alla scadenza della legislatura, nel 1958. Anche Tambroni rifiutò la fiducia inquinata dal voto missino, costretto in realtà a quel passo dalle immediate dimissioni di tre esponenti della sinistra Dc che figuravano nella sua lista dei ministri: Bo, Pastore e Sullo. Gronchi accettò le dimissioni dei tre ministri ma congelò quelle di Tambroni, che dunque aveva comunque in tasca la fiducia della Camera mentre restava in sospeso quella del Senato. Gronchi chiese a Fanfani di verificare la possibilità di ricomporre una maggioranza di centro con i partiti che erano stati alleati della Dc nel corso del biennio ‘50. Tentativo fallito.

Fanfani potè solo registrare l’impraticabilità di quella strada. Tambroni si presentò dunque di fronte al Senato ma stavolta rese esplicito il carattere transitorio del governo sul quale chiedeva ai senatori di votare la fiducia. Affermò anzi che quel governo si sarebbe occupato solo dell’ordinaria amministrazione e fissò il varo della legge di bilancio come termine. Incassò la fiducia anche a palazzo Madama, con 128 voti contro 110.Il primo governo sostenuto, sia pur dall’esterno, dal Msi, provocò subito un’ondata di indignazione. Sarebbe durato poco comunque. Serviva una scintilla e fu proprio il Msi a offrirla, con la decisione, assunta il 14 maggio, di convocare il suo sesto congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Era già successo. Anche il precedente congresso del Msi si era svolto in una città medaglia d’oro della Resistenza, Milano, dove anzi il Msi faceva parte della maggioranza nel consiglio comunale dal 1956.

Non c’erano state proteste in quell’occasione ma il clima, in pochi anni, era profondamente cambiato e non solo perché ora i missini erano per la prima volta nella maggioranza. Nel paese era montata una tensione sociale che iniziò a manifestarsi anche prima dell’apertura dell’assise missine a Genova, alla fine di giugno. Tra il 18 e il 22 aprile a Pisa e poi Livorno c’erano stati quattro giorni di scontri violentissimi tra manifestanti di sinistra da una parte, parà di stanza nelle città toscane e polizia dall’altro. Il 21 maggio la polizia interruppe a Bologna un comizio del dirigente del Pci Giancarlo Pajetta, innescando una rapida ma molto violenta battaglia tra la folla che assisteva al comizio e la polizia. Alla viglia del congresso del Msi la carica esplosiva era già accumulata. Il 28 giugno Sandro Pertini accese la miccia.

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