In dialetto genovese “u brichettu” significa “il fiammifero”. A Genova definivano così il discorso che Sandro Pertini tenne a Genova, il 28 giugno, nella prima grande manifestazione contro il Congresso del Msi sul punto di aprire i battenti al teatro Margherita, il 2 luglio. Il futuro presidente della Repubblica era noto per l’eloquio incendiario. Per l’occasione superò se stesso: «Perché dopo 15 anni dobbiamo sentirci di nuovo mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso? Ci sono stati degli errori, primo fra tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose… Io mi vanto di aver ordinato la fucilazione di Mussolini… Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di 24 voti i fascisti sono di nuovo al governo».

Il dirigente del Psi non voleva in realtà una battaglia in piazza. Subito dopo il discorso incendiario chiese al segretario dell’Anpi Giorgio Gimelli di adoperarsi per calmare un po’ le acque. A versare benzina ci pensarono però i missini e Tambroni. I giornali annunciarono la presenza al congresso di Carlo Emanuele Basile, odiatissimo prefetto di Genova durante i mesi della Repubblica di Salò. Il segretario del Msi Arturo Michelini annunciò di aver convocato a Genova, da Roma, «un centinaio di attivisti di quelli abituati a menare le mani». Tambroni scelse la prova di forza. Sostituì il prefetto Ingrassia, che aveva chiesto il pensionamento, con Giuseppe Lutri, un duro tra i più attivi nella repressione antifascista a Torino, negli anni del regime. Lutri, a propria volta, replicò alla richiesta del Pci e dell’Anpi di limitare la presenza delle forze dell’ordine convocando il più tosto battaglione della Celere di allora, il “Padova”. Il comandante generale dei Carabinieri Lombardi arrivò a sorpresa in città proprio alla vigilia dello sciopero per una “ispezione generale”.

La miscela esplosiva era pronta. Gli ex partigiani avevano già tirato fuori le armi. Primo Moroni, allora giovane militante arrivato da Milano per la manifestazione, ricordava: «Avevano piazzato un cannoncino 120 montato su un camion degli ortolani a controllare la strada. C’erano armi che non sono state usate, non si è sparato, sono state usate come deterrente». La Uil si era dichiarata contraria allo sciopero generale dichiarato della Cgil, la Cisl aveva lasciato libertà di scelta, la partecipazione alla manifestazione era straripante. Nonostante le premesse il corteo si svolse senza incidenti. I primi incidenti partirono a manifestazione conclusa, quando alcuni dei manifestanti iniziarono a insultare e tirare sassi contro la polizia presente in forze in piazza Ferraro. La polizia rispose con gli idranti, poi con le cariche del battaglione Padova. I genovesi erano pronti alla battaglia. Se la aspettavano. Erano preparati. I portuali tirarono fuori i rampini, contrattaccarono precipitando nella fontana al centro della piazza i celerini. Uno dei comandanti rischiò di essere affogato: fu salvato di misura dagli stessi organizzatori del corteo. Gli scontri proseguirono nei carrugi, i vicoli di Genova.

A reggere l’urto erano soprattutto i giovanissimi, passati alla storia per le magliette estive a maniche corte e strisce orizzontali. Non erano, come qualcun sospettò allora, “una divisa”. Costavano poco, erano di moda. Ma divennero in quei giorni un segnale preciso: quello di una nuova generazione piena di rabbia, non più impaurita come la classe operaia sconfitta del decennio precedente. Di fronte alla violenza degli scontri l’Anpi inizia a temere il peggio, cioè il ricorso alle armi da fuoco da parte della polizia. Il segretario Gimelli telefona in questura e trova conferma delle sue paure: «Mi rispose un funzionario della squadra politica, piangendo terrorizzato: “Ci ammazzano tutti!”». I dirgenti dell’Anpi convincono i manifestanti a tornare a casa. La giornata si conclude senza vittime ma la sera stessa viene proclamato un nuovo sciopero generale per il 2 luglio e gli ex partigiani formano un “comitato permanente” a cui vengono attribuiti gli stessi poteri del Cln durante la Resistenza.

Già dalla notte tra il 30 giugno e il primo luglio il governo fa affluire nuove truppe a Genova. Stavolta nessuno si illude che la manifestazione del 2 luglio possa essere pacifica. I proprietari del Teatro Margherita si spaventano, negano i locali al congresso missino, propongono di spostare le assise al cinema Ambra di Nervi. Michelini chiama Tambroni e quando il primo ministro gli si rivolge chiamandolo per nome e dandogli del tu sbotta: «Che Arturo e Arturo… Mi dia del lei e mi chiami onorevole!». Ma la situazione è senza via d’uscita: al Msi non resta altro che cancellare il congresso. Intanto però le manifestazioni dilagano, a partire dalla Sicilia, dove la protesta contro il governo si intreccia con una situazione di crisi sociale durissima. A Palermo, nel corso dello sciopero generale, volano i primi colpi di fucile, ancora sparati in aria. Qualche giorno dopo, il 5 luglio, a Licata, va peggio. Scorre sangue, si conta il primo morto: Vincenzo Napoli, 24 anni.

Non è una tragedia casuale. Tambroni si è convinto di essere di fronte a una manovra del Pci che mira a farlo cadere e ha deciso di rispondere col pugno di ferro. A Licata la crisi sociale morde a fondo. Il porto è fermo, l’unica fabbrica delle Regione appena chiusa, l’emigrazione fluviale. Nella giornata di sciopero i manifestanti occupano la stazione e bloccano i binari. La polizia interviene subito ma gli scontri diventano violenti solo nel pomeriggio, dopo cariche particolarmente violente. La stazione viene distrutta, la polizia passa ai mitra. Uccide Napoli e ferisce altre 7 persone senza riportare l’ordine. La guerriglia dura tutta la notte, con il ponte di ferro che collega Licata alla strada statale smantellato dai manifestanti. Il giorno dopo, 6 luglio, è convocata a Roma una manifestazione antifascista a Porta San Paolo, prima autorizzata, poi all’improvviso proibita. Si tratta solo di deporre due corone di fiori al monumento ai martiri della Resistenza e a occuparsene dovrebbero una cinquantina di parlamentari, trai quali Ingrao e Boldrini.

La proibizione di manifestare è inspiegabile se non con la volontà di creare nuovi incidenti. Nel Pci circola già dalla sera prima la voce che siano pronti a intervenire addirittura i reparti a cavallo, tanto che i ragazzi della Fgci mettono insieme un branco di gatti, che dovrebbero mandare nel panico gli equini. Ci rimediano solo una quantità di graffi. Nel pomeriggio del giorno dopo, evidentemente su disposizioni che partono da palazzo Chigi e dal ministro degli Interni Spataro, la polizia carica e picchia i parlamentari. Arrivano davvero i carabinieri a cavallo guidati dai leggendari fratelli Raimondo e Piero D’Inzeo, campioni internazionali di equitazione. Affermeranno infatti di affrontare la vicenda “con spirito sportivo” e un mese dopo, alle Olimpiadi di Roma, vinceranno sia l’oro (Raimondo) che l’argento (Piero). I cavalli calpestano la folla che segue i 50 parlamentari, inizialmente limitata ma che si ingrossa sempre più dopo le cariche. Di fronte alla Piramide, gli antifascisti alzano una barricata, le cariche di cavalleria proseguono, poi, sciolta la manifestazione, la polizia si abbandona a una vera e propria battuta di caccia per le strade del quartiere limitrofo di Testaccio.

Il 7 luglio è il giorno della strage. In tutta l’Emilia le manifestazioni contro il governo e contro i fascisti proseguivano da giorni. A Reggio Emilia c’erano già stati scontri con la polizia. Allo sciopero convocato dalla Cgil non aderiscono gli altri due sindacati ma gli iscritti si affollano lo stesso di fronte alla sala Verdi, per il comizio del segretario della Camera del Lavoro Franco Iotti. La questura ha concesso solo l’uso della sala, capienza 600 posti, non delle vie adiacenti, dove arrivano 20mila persone. La CdL chiede di disporre altoparlanti per far sentire a tutti il comizio. Le forze di polizia rispondono con l’ordine di sciogliere l’assembramento e subito dopo lanciano una serie di cariche direttamente con le camionette lanciate contro la folla, con un fittissimo lancio di lacrimogeni e con gli idranti.

I manifestanti fuggono, cercano riparo nelle strade, poi si riorganizzano, contrattaccano, costringono la polizia a indietreggiare. È a questo punto che la polizia apre il fuoco ad altezza d’uomo. Falcia Lauro Ferioli, 22 anni e Marino Serri, 40 anni. Afro Tondelli, 35 anni, viene colpito a freddo e morirà nella notte. Cadono Ovidio Franchi, 19 anni ed Emilio Reverberi, 23 anni. Il questore proverà a giustificarsi affermando che i primi colpi erano partiti dai manifestanti ma la bugia non regge neppure poche ore. La polizia si schiera con le armi spianate intorno agli ospedali e respinge la folla che arriva per chiedere informazioni sulla sorte dei moltissimi feriti o donare il sangue. Il giorno dopo le manifestazioni e gli scioperi in tutta Italia sono innumerevoli ma la tensione più alta è di nuovo in Sicilia. C’è l’antifascismo, certo, ma c’è soprattutto, l’esasperazione di chi è stato tagliato fuori dal boom. Lo scopre Pio La Torre quando, all’inizio degli scontri, prova a redarguire un uomo impegnato a sradicare una panchina per farne bastoni. La Torre lo apostrofa a muso duro: «Ma sei pazzo?». L’altro non s’intimidisce: «No, sono un morto di fame che ha dimenticato il sapore di un piatto di pasta. Tu, segretario dei miei stivali, hai mangiato a pranzo e mangi pure a cena».

Per 8 ore i dimostranti affrontano la polizia, resistono alle cariche, occupano il centro della città, tentano l’assalto al Municipio. La polizia spara di nuovo. Uccide un ragazzo di 16 anni, Giuseppe Malleo, il sindacalista Francesco Vella, un altro giovanissimo, Antonio Gangitano, 21 anni. Rosa La Barbera non partecipa alle proteste. Muore mentre si avvicina alla finestra per chiuderla ed evitare che il fumo dei lacrimogeni invada la casa. Ma dalle finestre piovono sulla polizia oggetti di ogni genere e la risposta sono i colpi di fucile contro le abitazioni, uno dei quali uccide la casalinga. Scene quasi identiche a Catania. Lo sciopero, le cariche, le barricate, i colpi che uccidono un altro ragazzo, Salvatore Novembre. Viene lasciato sul selciato per oltre un’ora prima che arrivino, troppo tardi, i soccorsi.

Il giorno dopo le manifestazioni sono più imponenti che mai. Il governo tenta di fare quadrato. Il presidente del Senato Merzagora propone una tregua di 15 giorni: interruzione delle manifestazioni e consegna delle truppe in caserma. Viene respinta con sdegno. «La fiducia nello Stato potrebbe essere scossa da proposte del genere», s’imbizzarrisce Tambroni. Il comunicato del Consiglio dei ministri è bellicoso. Ruggiti a vuoto. Nel giro di 10 giorni Tambroni verrà costretto dalla Dc alle dimissioni. Lascerà il posto ad Amintore Fanfani con il compito di preparare la strada all’accordo con il Psi e al centro-sinistra. Non sarà più eletto e morirà di infarto tre anni dopo.

2 – Continua