C’è un mantra che risuona insistentemente dentro le analisi economiche e fiscali formulate dalle istituzioni internazionali, le quali poi si traducono in raccomandazioni e imposizioni indirizzate ai loro paesi membri: che sia cosa buona e giusta, mantenendo lo stesso livello di pressione fiscale, ridurre la tassazione sui redditi di lavoro, per spostarla sulle imposte indirette e sulla proprietà, in particolare quella immobiliare, con il nobile fine di fare crescere più velocemente il Pil del paese.

Per “istituzionali internazionali” mi riferisco al Fondo Monetario Internazionale (FMI), all’OCSE e alla Commissione Europea: a partire da un famoso articolo empirico ad opera dell’economista dell’OCSE Jens Arnold e dei suoi coautori, circola un’idea di riforma accattivante, secondo cui si possono prendere i due proverbiali piccioni con una fava (maggiore crescita economica e maggiore redistribuzione delle risorse) gravando di maggiori imposte i proprietari di beni immobili e nel contempo sgravando lavoratori dipendenti e imprese: il terzo piccione che verrebbe colpito da questa strategia è l’assennatezza fiscale, cioè l’esigenza di non aumentare la pressione fiscale complessiva ma di cambiare soltanto la suddivisione del gettito tra le diverse imposte (il cosiddetto “tax mix”).

Tuttavia, il mantra di cui sopra racchiude a quanto sembra alcune note stonate, che lo rendono molto meno suadente e persuasivo. Per note stonate mi riferisco a due analisi empiriche successive, che raggiungono conclusioni molto più neutre, se non opposte a quelle iniziali, sul tema del tax mix ottimale per massimizzare la crescita.

Mi capita di esser essere parte in causa dentro il primo articolo (insieme alle coautrici Baiardi, Profeta e Scabrosetti): rianalizzando i dati utilizzati da Arnold con metodologie statistiche più prudenti sulla precisione delle stime stesse, raggiungiamo la conclusione che nel lungo termine non vi è una correlazione statisticamente significativa tra la variazione nel tax mix e la crescita economica. In altri termini, non è vero che paesi che riducono il carico fiscale sul reddito da lavoro spostandolo verso la tassazione indiretta (l’IVA, per intenderci) e la tassazione della proprietà immobiliare ottengano tassi di crescita maggiori rispetto ai paesi che non lo fanno.

La seconda nota stonata è un recentissimo articolo scritto da Piroli e Peschner, i quali lavorano presso il direttorato della Commissione UE che si occupa di tassazione e dogane. Ebbene, mentre da un lato gli autori confermano il risultato di Arnold secondo cui lo spostamento del prelievo fiscale verso la tassazione indiretta faccia bene alla crescita economica, al contrario e “inaspettatamente” (per citare le loro stesse parole) essi mostrano come uno spostamento della tassazione verso la proprietà immobiliare sia associato con una riduzione significativa della crescita economica.

È ovviamente auspicabile che gli economisti replichino in maniera scientificamente corretta i risultati empirici precedenti, al fine di verificarne la robustezza, cioè il fatto che essi non dipendano da scelte possibilmente arbitrarie come quelle relative all’insieme dei paesi considerati nell’analisi e/o al periodo di tempo a cui si riferiscono i dati.

Tuttavia, che cosa rimane della forza persuasiva del mantra iniziale, secondo cui un paese come l’Italia deve aumentare le tasse sulla casa, perché “ce lo chiede l’Europa”? Prima di chiedere all’Italia di fare le riforme, è meglio chiedere ai dati di dire la verità.