Caro Claudio,
a questo punto, a proposito di carriere, non posso fare a meno di raccontare una storiella che riguarda la mia “carriera”, ma riguarda anche te e il ruolo che avevi come braccio destro di D’Alema, allora Segretario del PDS. A Palazzo Chigi c’era Romano Prodi con vice Presidente del Consiglio Veltroni, che era anche Ministro della Cultura. Un lunedì sera verso la metà di giugno Veltroni mi chiamò, comunicandomi che, d’intesa con Prodi, pensavano di propormi come Presidente dell’ENEL. Un paio d’anni prima avevo accettato la proposta di Rutelli, eletto Sindaco di Roma, di assumere l’incarico di Presidente di ACEA, l’azienda del Comune di Roma che si occupava di distribuire acqua e elettricità nella Capitale. E qui facciamo un piccolo intermezzo che spiega alcune cose.

La prima nomina importante fatta dal Governo Prodi era stata quella dei vertici dell’allora Telecom: la scelta era caduta su Pascale, persona sicuramente competente, sperimentato “boiardo di stato”, secondo il linguaggio dell’epoca, in quanto proveniente dal mondo IRI. Insomma una persona molto vicina a Prodi, e i giornali avevano sottolineato la sua impronta, anche se il partito più importante della coalizione era il PDS. Insomma si diceva che un governo orientato a sinistra agiva in piena continuità democristiana. Ci voleva quindi un segno di svolta e la svolta – la cosa mi fa sorridere ancora oggi – ero io. Naturalmente ringraziai per la proposta, anche se Veltroni mi avvertì che non sarebbe stato un percorso semplice. Siccome ero ancora ingenuamente convinto che fra governo e partito ci fosse un filo rosso di condivisione e che la stessa condivisione ci fosse fra Veltroni e D’Alema, feci a Walter la domanda di rito: “Ne hai parlato con D’Alema? Il partito è d’accordo?”. “Questa è un’operazione che conduciamo da Palazzo Chigi, in cui il partito non deve entrare”, fu la risposta, che mi lasciò perplesso, ma non aggiunsi altro.

Il giorno dopo mi chiamasti tu da Botteghe Oscure, facendomi lo stesso discorso di Veltroni, condito come tua abitudine da qualche considerazione politica e una certa rudezza. “Sai, abbiamo bisogno di dare il segno di una svolta, e quindi la scelta cade su di te”. Ringraziai e ti feci la stessa domanda che avevo fatto a Walter, facendo finta di niente, e senza dirti che la stessa cosa mi era stata proposta da Veltroni il giorno prima. La domanda fu: “Ma ne avete parlato con Prodi e Veltroni?”. “Questa è un’operazione che facciamo dal partito. Lascia stare Palazzo Chigi, ci pensiamo noi”. Così capii due cose. Che tra Palazzo Chigi e Botteghe Oscure il filo rosso era un po’ teso – per usare un eufemismo – e che a me, vaso di coccio, conveniva fare il pesce in barile. Come andò poi è cosa nota. Il mio nome non sollevò entusiasmi dalle parti di Ciampi, Ministro del Tesoro, che voleva la quotazione in borsa di ENEL e cercava un nome più “pesante”. E anche qualcuno di peso nel PDS avrebbe preferito dar retta a Ciampi. Ma pur nelle reciproche divergenze, tra Prodi, Veltroni e D’Alema ci fu una “convergenza parallela” nel sostegno della proposta, e il venerdì di quella stessa settimana fui nominato Presidente di ENEL con Franco Tatò, manager di grande corso, Amministratore Delegato.

La leggenda racconta che Franco Tatò, proveniente da Mondadori e ancora prima da Fininvest, fosse stato segnalato a D’Alema da Berlusconi stesso, il quale una volta ebbe a dire, in onore alla sua fama di grande ristrutturatore di aziende in crisi, “quando Tatò mi guarda, mi sento un costo da tagliare”. E di costi inutili in ENEL ne tagliammo un sacco, l’azienda fu quotata con grande successo, fondammo Wind e tante altre cose. Ma questa è un’altra storia. Come è un’altra storia la rivalità fra Veltroni e D’Alema, fondata certo su divergenze politiche, ma anche caratteriali, che tanto segnarono quel PDS poi diventato PD. Storia onestamente poco gloriosa visto come è ridotto oggi quel partito. Come dice il protagonista di “Guida galattica per autostoppisti” splendido romanzo di fantascienza di Douglas Adam, di esso si può dire “abbiamo un grande futuro alle nostre spalle”. Ma anche questa è un’altra storia.

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Caro Chicco,
pensavo di cavarmela fermando il racconto della mia “carriera” agli inizi degli anni ’90, quando effettivamente persi ogni ruolo politico, al punto da rimanere disoccupato per un po’. Ma tu mi trascini a qualche anno dopo, quando mi ero reinventato come “tecnico al servizio della politica”, in sostanza facendo il capo dello staff di D’Alema, anche se questo ruolo era letteralmente “innominabile”, perché non solo non previsto nella nomenclatura e negli organigrammi del partito, ma strutturalmente contrario al modo di essere dei sinedri comunisti. Sai come funzionavano le cose nel Pci. I dirigenti si riunivano per ore, prendevano le decisioni e il segretario le rendeva operative. Il leader in sostanza viveva in una gabbia dorata, condizionato da direzioni, uffici politici, segreterie che lo lasciavano al suo posto purché non facesse per conto suo.

Nell’era postcomunista, con la nascita esplicita e relativa lotta tribale tra le correnti, la novità era che quelli del sinedrio non puntavano solo a condizionare il leader, ma cercavano di paralizzarlo perché volevano fargli le scarpe. Così succedeva a D’Alema, era successo prima a Occhetto e stessa sorte sarebbe toccata poi a tutti gli altri dopo di lui, compresa oggi la Schlein: il cannibalismo interno è un cancro che cresce senza possibili cure, nel corpaccione molle del Pci-Pds-Ds-Pd, e determina progressivo intorpidimento, incapacità di fare un solo passo senza caregiver che poi ti fanno cadere alla prima curva. Tornando a noi, per questo, a un certo punto, creammo uno staff per il segretario, quello che Maria Laura Rodotà definì Lo Staff dei Lothar (perché calvi come me, Rondolino, Latorre – mentre Cuperlo aveva i capelli – e poi Minniti, che era calvo ma non faceva parte dello staff, in quanto, lui sì, molto in carriera). Questo gruppo di persone aveva come unico e solo obiettivo quello di portare avanti e attuare le decisioni del segretario, mentre gli altri, quelli del sinedrio, miravano a impedire iniziative, a mediare e smussare le posizioni, di conseguenza a indebolire, non a rafforzare la leadership.

Così succedeva che D’Alema convocava la nomenklatura del partito nell’ufficio adiacente alla stanza della povera Ornella (morta non molto tempo fa, che dispiacere…), intorno a quel bel tavolo circolare (ricordi?), e ne usciva dopo ore sbuffando e maledicendo gli interventi chilometrici, le perdite di tempo, le richieste di approfondimento, i rinvii. Era a quel punto che entrava in azione lo staff: per accelerare dove si cercava di ritardare, per dare per prese decisioni che non lo erano, indicare nomine da fare qui e là, sempre aggirando e scavalcando gli organismi dirigenti. Forse per innata vocazione, quello maggiormente deputato al “lavoro sporco” ero io. Naturalmente mi piaceva – e a chi non piace – l’esercizio e la gestione del potere, soprattutto quando non condiviso con altri, e il fatto di apparire all’esterno come il depositario ultimo delle volontà del segretario mi procurava una certa infantile eccitazione, perché negarlo. Ma il contraltare di questa posizione di indubbia forza consisteva nel fatto che ero il più odiato e bersagliato dai dirigenti del partito, che accusavano D’Alema di darmi troppo spazio e gli mandavano lettere di fuoco, finanche chiedendogli di cacciarmi dal suo inner circle.

Lui, il furbastro, a loro diceva candidamente di non sapere niente di quello che combinavo, quasi negava di conoscermi. D’altronde, effettivamente, le indicazioni che mi dava erano sempre vaghe, implicite, allusive. E io le interpretavo, magari prendendomi qualche libertà di troppo. Così arriviamo, caro Chicco, alla nostra telefonata. Che fu fondamentalmente una “pezza a colore”, un modo che scegliemmo – o forse scelsi addirittura da solo – per non apparire tagliati fuori da una decisione già presa a Palazzo Chigi, non a Botteghe Oscure. A te – all’epoca veltroniano a tutto tondo – questo era molto chiaro, tant’è che mi rispondesti con garbo, ma certo non ebbi l’impressione di averti arruolato nell’esercito regolare dei dalemiani, con l’offerta di un incarico di prestigio che i furbetti veri, quelli di Palazzo Chigi, già ti avevano assegnato!

Chicco Testa e Claudio Velardi

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