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Tutti a lezione dall’eroe Gratteri nella nuova stagione di La7. Il giustizialismo diventa show
La nuova stagione di La7 sembra delineare con sempre maggiore precisione l’identità editoriale: colta, critica, disillusa, che ha smesso da tempo di riconoscersi nei tradizionali canali del servizio pubblico. È una televisione che cerca di intercettare chi, deluso da Rai 3, non trova più nei palinsesti generalisti stimoli capaci di suscitare dibattito, riflessione, confronto reale. In questo contesto, il progetto portato avanti da Urbano Cairo e dal direttore Andrea Salerno assume una coerenza interna innegabile. Ma, proprio in questo disegno, si inserisce una scelta che solleva interrogativi importanti: quella di Nicola Gratteri, che condurrà “Lezioni di mafia”.
Perché un magistrato in attività, da sempre identificato con la lotta alla ‘ndrangheta e simbolo, per molti, di un approccio muscolare e intransigente alla giustizia, viene coinvolto in un contesto televisivo che inevitabilmente lo trasforma da tecnico a personaggio pubblico, da operatore del diritto a icona mediatica? Perché sentiamo ancora oggi il bisogno di costruire dei nuovi Di Pietro, capaci di incarnare un’idea moralistica della giustizia? È una domanda che riguarda l’Italia profonda, quella che non ha mai smesso di cercare nella giustizia non solo l’applicazione delle leggi, ma anche una forma di riscatto morale collettivo. Un Paese che, pur tra mille contraddizioni, continua a cercare un “uomo forte”, purché sia incorruttibile, inflessibile, “uno dei nostri”. Questo bisogno si declina in modo bipartisan, attraversando la destra e la sinistra: due fronti che, a parole, si contrappongono, ma che nel tempo hanno condiviso – con sfumature diverse – il culto del magistrato-eroe, chiamato a ripulire una politica vista come irrimediabilmente corrotta.
Nel caso di Gratteri, il processo è evidente. Dopo anni di inchieste, libri, interviste, la sua figura ha progressivamente travalicato i confini del ruolo istituzionale, diventando quasi un personaggio pubblico, che rischia di fare più male che bene alla credibilità delle istituzioni. La giustizia, per definizione, dovrebbe restare distante dal palcoscenico, evitare l’identificazione con un volto, una voce, una visione personale. Ma cosa c’è dietro questa tensione quasi ancestrale verso il giustizialismo? Forse il fatto che l’Italia, nonostante il dibattito democratico, ha sempre avuto un rapporto problematico con la politica. La fiducia nei partiti è ai minimi storici, la corruzione percepita continua a essere elevata e il magistrato diventa la figura salvifica, il baluardo credibile contro il disfacimento morale. È una scorciatoia pericolosa, ma seducente: se i politici falliscono, che si affidino i destini della nazione a chi “dice la verità”, a chi “arresta i corrotti”, a chi “non scende a compromessi”.
La televisione, in tutto questo, svolge un ruolo fondamentale. La7 lo sa bene. Se l’obiettivo è intercettare un pubblico che non si accontenta, che vuole rigore, autenticità, denuncia, allora la figura di Gratteri risulta perfettamente funzionale al format. Ma è proprio qui che si cela il rischio più sottile: trasformare il rigore in spettacolo, la legalità in show, la denuncia in brand. È la medesima logica che, in passato, ha portato Di Pietro dal tribunale alla ribalta politica, dalla toga al talk show. Un processo che finisce per svuotare la giustizia della sua funzione essenziale – discreta, imparziale, silenziosa – e la riconfigura come strumento di legittimazione pubblica. Non si tratta di mettere in discussione l’integrità di Gratteri o la legittimità delle sue battaglie, quanto piuttosto di interrogarsi sul contesto in cui queste battaglie vengono rappresentate. Il problema non è Gratteri, ma l’uso che si fa della sua figura, il bisogno simbolico che essa va a colmare.
La domanda, in fondo, è sempre la stessa: abbiamo bisogno di magistrati o di profeti? Di tecnici o di redentori? Nel lungo periodo, questo riflesso condizionato verso il giustizialismo rischia di impoverire il tessuto democratico del Paese, alimentando una narrazione binaria e semplicistica: da una parte i buoni (magistrati, giornalisti d’inchiesta, società civile), dall’altra i cattivi (politici, amministratori, élite). Una visione moralista che rifiuta la complessità, che cerca scorciatoie invece di soluzioni sistemiche. La7 può continuare a essere la voce fuori dal coro, l’alternativa intelligente al conformismo del mainstream, oppure può cedere alla tentazione di trasformarsi in una nuova cassa di risonanza del populismo giudiziario. Una cosa è certa: in Italia, la linea tra informazione e suggestione morale è sempre più sottile. E quando la giustizia diventa spettacolo, non sempre lo spettacolo finisce bene.
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