Il giornalismo che offre tanto spazio agli influencer della magistratura militante è doppiamente responsabile del clima di svacco che ha contaminato ormai irrimediabilmente il dibattito pubblico italiano: perché non solo lascia che quegli apostoli della giustizia piombata si abbandonino alla loro ciarla nella rigorosa assenza di qualsiasi contraddittorio, ma ancora consente che facciano lezione sopra ogni argomento del vivere civile e della vicenda politica. Non gli offrono la scena affinché spieghino qualcosa che vagamente appartenga alle loro improbabili competenze: tipo cos’è una prova, come funziona un processo, o magari per cimentarsi nel coraggioso tentativo di chiarire al Dj in parentesi ministeriale la differenza tra colpa e dolo. Macché.
Li piazzano davanti alle telecamere o gli riservano ettari di interviste e quelli giù a far dottrina sulla legge elettorale, sulla politica dei redditi, sulle tossicodipendenze, sul sistema tributario e via di questo passo, naturalmente con puntuale siparietto sulla necessità di impreziosire il territorio trasformandolo in una fungaia di nuove carceri visto che quelle esistenti non bastano a contenere tutti gli innocenti in attesa di giudizio. Dice: ma anche i magistrati sono cittadini, e hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero. No, bello mio. Innanzitutto perché i magistrati non sono cittadini come gli altri, visto che hanno il potere di ficcarti in galera, e poi perché se tu li metti in quel modo sulla tribuna non lo fai per far sapere quel che loro pensano (che tra parentesi chissenefrega), ma per insegnare quel che bisogna pensare: che fuor di parentesi vorremmo deciderlo per conto nostro.
Perché fino a prova contraria un funzionario incaricato di fare indagini e processi non ha titoli speciali per impartire insegnamenti su come si dovrebbe gestire la faccenda pubblica: nemmeno in campo giudiziario e anzi tanto meno in quel campo, salvo credere che sia importante uniformarsi al parere del boia quando si discute di pena di morte.
Questa pratica è più violentemente disinibita presso certi organi dell’informazione italianona, tipo Telecinquestelle (ovvero La7), o prevedibilmente sul giornale di Marco Travaglio, dove gli amici magistrati del direttore si affrettano a illustrare all’uditorio più reazionario del Paese la magnificenza delle riforme del ministro Bonafede sotto la lungimirante guida dell’avvocato del popolo, l’unico che non considerano un mascalzone colluso coi delinquenti che la fanno franca grazie ai suoi trucchetti.
Ma è una pratica ben insinuata anche altrove, e di fatto non c’è sede della stampa cartacea o televisiva in cui non trovi spazio l’intemerata magistratesca su qualsiasi questione dell’attualità politica, coi giornalisti professionalissimi nella consegna del silenzio davanti ai più discutibili spropositi sgranati dal togato di turno. A esser clementi bisognerebbe dire che questi poveretti non si accorgono di legittimare in tal modo il movimento in direzione decisamente autoritaria di questo andazzo balordo. Non sospettano nemmeno vagamente che una ragione di cautela pubblica, di saggezza comunitaria, di ordine democratico vuole che chi rappresenta un potere sia pur legittimamente repressivo (un militare, un giudice) se ne spogli prima di prendere parte attiva nella vicenda civile: perché se non lo fa le sue idee tendono ad accreditarsi in forza della capacità intimidatrice di quel potere.
E non sanno dunque che dare ai rappresentanti di quel potere la panca del comizio significa lasciare che il loro ruolo si perverta nel tentativo di fare stato sulla società che quel potere ha sì attribuito, ma a condizione che fosse subordinato alla legge. La società dell’ordinamento democratico, almeno. Ma sono appunto cavillose minuzie, comprensibilmente estranee al panorama di cognizione civile del giornalismo procuratorio.
