Chicco & Claudio
Comizi e comizi
Unità, passione (e qualche bugia): dai baldacchini fino ai palcoscenici, i comizi sono di tutti ma non per tutti
6 – Riuscire a incantare migliaia di persone e farle sentire dalla parte giusta della storia è un’arte che pochi sono stati in grado di padroneggiare, talvolta modellando la realtà a proprio vantaggio
Chicco, ora che ci penso, credo di non avere mai ascoltato un tuo comizio. Non parlo di interventi, relazioni in convegni o anche in riunioni di partito: circostanze nelle quali ognuno di noi espone alla sua maniera (tu, come me, con una certa veemenza) le sue opinioni su questo o quel problema. Parlo proprio di quell’antico modo di comunicare le nostre idee, dall’alto di palchetti montati con precari assi di legno, addobbati con drappi e bandiere di partito, con microfoni permanentemente gracchianti, che costituivano l’impegno centrale cui far fronte nelle campagne elettorali, ma non solo.
Io rimanevo letteralmente incantato, magnetizzato quando a Napoli veniva a parlare qualcuno dei grandi big, generalmente nell’enorme cinema Metropolitan, stipato di compagni arrivati da ogni dove con pullman e striscioni: Giancarlo Pajetta, con la sua ironia grossolana ma tagliente; Giorgio Amendola, che aveva sempre qualche lezione da impartire, per educare i militanti a non mancare mai di tenacia, pazienza e spirito unitario; e soprattutto Pietro Ingrao, che parlava in un silenzio di tomba, trascinando tutti gli ascoltatori nel gorgo dei suoi ragionamenti astratti e fascinosi. Erano loro gli eroi dei nostri comizi, i più richiesti dai militanti, quelli che riempivano gli oltre 3000 posti (veri, non inventati come quelli di oggi) del cinema.
Tutt’altra storia quella di Berlinguer, che veniva a chiudere quasi sempre le campagne elettorali nel gigantesco anfiteatro di piazza del Plebiscito dove, considerando un palco montato tra le due statue equestri, entravano tra le 20 e le 25mila persone (sempre evitando di sparare numeri a caso). Nei momenti di gloria, nella prima metà degli anni ‘70, si riempiva anche la piazza Trieste e Trento, che immetteva nel Plebiscito, e dal palco ‘o maresciallo (il tranviere Antonio Cozzolino) chiedeva ai compagni di spostarsi verso palazzo Salerno, sul lato opposto della piazza, per favorire l’afflusso dei cortei che sciamavano da via Toledo. L’annuncio, ampiamente reiterato per accrescere la convinzione che eravamo davvero una marea, rimandava una sensazione inebriante di forza, di organizzazione, di potenza oggi neppure immaginabile, e trasmetteva a me e a tanti il senso di essere non solo parte di una storia, ma dalla sua parte giusta. Com’era possibile che a quelle armate entusiaste qualcuno potesse non dare ragione? E perché non ci accorgevamo che ai bordi delle strade che attraversavamo in corteo la gente ci guardava con noncuranza, quando non con fastidio?
Ma torniamo all’inizio, altrimenti mi perdo. Parlavo dei comizi per dirti della mia prima performance, che doveva già dirmi perché la politica non era fatta per me (e io per lei, naturalmente…). Da poco mi era stata consegnata la tessera del partito, con una deroga voluta dal segretario di sezione, anche se ero dirigente provinciale della FGCI: era il modo per dirmi che dovevo cominciare a pensare in grande. Così si decise di sperimentare il ragazzo brillante che aveva portato aria fresca in sezione, facendolo parlare in piazza. Avrei preso la parola dopo l’introduzione del segretario e prima del già citato, simpaticissimo compagno Fermariello, capace di comizi scoppiettanti, anche se nella circostanza avrebbe esordito con una clamorosa gaffe, dicendo con enfasi: “Sia giorno di vittoria il 7 di maggio, cari cittadini di Montecalvario!” (Solo che si trovava a Materdei, e dalla piazza glielo urlarono in parecchi…). E non è da escludere che il suo avvio infelice fu influenzato dal mio discorsetto precedente, astruso e ideologico, letto male e senza rispettare le regole-base della retorica che, da Cicerone in poi, ogni politico dovrebbe conoscere a menadito.
Ma veniamo al punto, mio caro. Perché feci un comizio di merda, quella volta, e perché non ho mai saputo farne? Perché l’idea di imbonire la gente non mi andava. Neanche allora, figuriamoci adesso… E cos’è un comizio se non questo? Se non il mettere da parte la complessità della realtà, le sue sfumature, i torti e le ragioni che spesso si dividono… Un comizio deve essere apodittico, deve indicare al pubblico ludibrio un nemico, per rafforzare il senso tribale di comunità di chi ti ascolta deve dire che al mondo ci sono i buoni e i cattivi… Quante cazzate. I nostri comizi, caro Chicco, non erano altro che rudimentali echo chamber, erano le bolle dell’era analogica. Per questo non mi piacevano e non sapevo farli. Perché sapevano irrimediabilmente di falso.
***
Caro Claudio, ti devo confessare una cosa. Nei comizi sono sempre stato una vera pippa. Ho sempre provato un grande imbarazzo e un po’ di invidia per chi li sapeva fare. Con i diversi stili. Berlinguer, come Togliatti, svolgeva lunghi ragionamenti: i suoi comizi avevano uno scopo anche pedagogico, senza tralasciare le punte polemiche e gli inviti alla mobilitazione che sollevavano entusiasmo e chiamavano gli applausi. Pajetta era invece il re delle battute, delle polemiche, dell’attacco agli avversari. Molto popolare.
E poi per noi piccoli dirigenti di partito ce ne erano di vari tipi. Quelli più urticanti, e imbarazzanti, erano quelli che dovevi tenere “all’impronta” su un baldacchino improvvisato, speso solo una sedia, una cassetta di verdure e un megafono davanti a qualche fabbrica, ufficio, supermercato, all’entrata e all’uscita dei potenziali ascoltatori, mentre tutti si affrettavano verso il lavoro o verso casa, non ti degnavano di uno sguardo o al massimo ti osservavano con curiosità. Salvo pochi complici che ti sostenevano con applausi forzati. Poi c’erano quelli più impegnativi in chiusura di manifestazioni, di un festival dell’Unità di quartiere o di campagne elettorali. Una specie di rito di chiusura, il sigillo di un impegno durato giorni. E lì bisognava darsi da fare i perché i compagni lavoravano per portare un po’ di gente e si aspettavano che tu scaldassi la piazza e la entusiasmassi. Cosa di cui non ero per niente capace.
Anche qui ho un aneddoto da raccontare. Nel 1987 ci sono le elezioni nazionali per Camera e Senato, sono candidato nelle Marche in testa di lista dopo il povero Stefanini, ottima persona ed ex Sindaco di Pesaro, povero non solo perché scomparso prematuramente, ma perché si trovò poi a fare il tesoriere del PDS, nato dalla svolta dell’ ‘89, negli anni di Tangentopoli con tutto quello che ne consegue, ma ci torneremo, quindi con la relativa sicurezza di essere eletto come si usava in quei tempi, quando era il Partito a decidere, anzi a ordinare, quali dovessero essere le preferenze da esprimere dalle diverse sezioni. Che rispettavano le indicazioni alla lettera. Alla certezza dell’elezione corrispondeva però una fatica disumana. Ogni giorno 2/3 iniziative fra comizi, riunioni, dibattiti e centinaia di km percorsi da una capo all’altro della Regione. A letto sempre dopo la mezzanotte in piedi all’alba. Colorito pallido e stomaco rovinato da troppe cene. Mi viene assegnato per il comizio finale il venerdì sera in un paese sulle colline marchigiane dove il PCI aveva la maggioranza assoluta da molti anni. Orario: 23.30.
Ora bisogna ricordare che, all’epoca, le campagne elettorali terminavano per l’appunto il venerdì sera e il giorno dopo era previsto il cosiddetto silenzio elettorale, che veniva rigorosamente rispettato da tutti. Radio e tv non potevano più avere ospiti esponenti di partiti e non si potevano tenere manifestazioni pubbliche, volantinaggi, ecc. Quindi vado lassù e trovo in una bella serata di primavera avanzata una piazza completamente piena. Molti con la sedia che si erano portati da casa per mettersi comodi a godersi lo spettacolo. Vengo accolto con il rispetto dovuto ad un futuro eletto e chiedo al segretario di sezione quanto devo parlare, e azzardo “una mezz’ora?”. Mi guarda stupito e mi dice che il comizio deve durare almeno un’ora, se no non è un vero comizio, non c’è soddisfazione, e loro si sono impegnati molto. Non ricordo cosa dissi e quante volte alzai forzatamente la voce in cerca di un applauso e di un po’ di entusiasmo, ma ricordo che non fu una prova particolarmente brillante, gli applausi piuttosto mosci e i complimenti, che erano d’obbligo alla fine del comizio, furono più dovuti che spontanei. Ma per ricordarci come era il PCI in quei tempi devo aggiungere una cosa. Chiesi al Segretario come mai il comizio fosse stato fissato ad un’ora così tarda. Lui mi rispose che questa era la tradizione del luogo. “perché i comunisti dovevano sempre avere l’ultima parola”. Allora chiesi chi aveva parlato prima di me. “Nessuno – mi rispose – ma non si sa mai e le tradizioni non si cambiano”.
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