Almeno quindici i set fotografi ci allestiti nella Striscia
A Gaza i set della fame-show, così vi ingannano i fotografi Propal: “Pronti? Agitate le scodelle, bravi”
Un reportage del canale israeliano ILTV, sulla scia di due inchieste tedesche, svela la messa in scena. Il fotografo turco Anas Zayed Fatiyeh, legato al suo governo, crea campagne di indignazione ad arte
Una recente inchiesta di ILTV News – rete israeliana in lingua inglese specializzata in politica estera, sicurezza e disinformazione – ha svelato l’ennesima messinscena orchestrata da Hamas per manipolare l’opinione pubblica internazionale: finte scene di fame a Gaza, costruite ad arte per commuovere, indignare e orientare il giudizio dei media occidentali.
Pentole vuote e persone in posa
Il caso emblematico riguarda il fotografo Anas Zayed Fatiyeh, legato a un’agenzia turca vicina al presidente Erdoğan. Secondo quanto ricostruito, Fatiyeh avrebbe diretto una protesta simulata denominata “Hunger Campaign in Gaza”, dove individui selezionati sono stati messi in posa con pentole vuote per inscenare l’emergenza umanitaria. Una messinscena, nulla più. Per aumentare l’efficacia mediatica, gli organizzatori hanno inserito donne e bambini in primo piano. Il tutto in quartieri del sud della Striscia saldamente controllati da Hamas, dove ogni produzione fotografica – non è un dettaglio – è filtrata, approvata o organizzata dal regime stesso. Secondo una fonte diplomatica israeliana, sono almeno quindici i set fotografici disseminati nella Striscia di Gaza e allestiti con cura teatrale: tende, comparse, cartelli e regia.
La condanna dell’ambasciatore
Un’indagine della Süddeutsche Zeitung ha mostrato che le immagini usate in Occidente per denunciare la fame non ritraggono file per ricevere aiuti, bensì gazawi in posa, rivolti ai fotografi, non ai camion umanitari. Il quotidiano tedesco Bild ha confermato che uno degli autori di queste immagini lavora per un’agenzia turca e diffonde regolarmente contenuti antisemiti e anti-Israele sui propri profili social. Un esperto tedesco ha dichiarato: «Queste foto non servono a documentare la fame, ma a rimpiazzare le immagini crudeli del 7 ottobre nella mente dell’opinione pubblica». Anche l’ambasciatore israeliano Jonathan Peled condanna l’irrispettosa farsa della fame: «Ancora una volta riscontriamo uno schema già utilizzato in precedenza, che sfrutta le immagini dei bambini per le abominevoli falsificazioni di Hamas. Stavolta, il tabloid tedesco Bild smaschera la deplorevole propaganda mediatica di Hamas, dimostrando quanto le immagini di bambini e adulti disperatamente alla ricerca di cibo esibendo pentole vuote siano frutto di una spregiudicata messa in scena». Il diplomatico israeliano rincara la dose: «La diffusione di immagini artefatte, in cui l’esasperazione e la sofferenza dei palestinesi vengono sfruttate per suscitare del sensazionalismo mediatico contro Israele, é inaccettabile e inammissibile. Chiediamo a tutta la stampa italiana ed estera che abbia fatto utilizzo di queste fotografie ingannevoli di presentare immediatamente una rettifica pubblica. Fare informazione corretta é un dovere professionale, prima ancora che un imperativo morale».
Riscrivere la storia con la fotografia
Il gioco è evidente: falsificare la memoria, rovesciare la colpa, riscrivere la storia con la fotografia. È il giornalismo deepfake, dove l’immagine non testimonia, ma fabbrica. La domanda è: perché la Turchia ha interesse a tutto questo? Perché Erdoğan finanzia media, agenzie e attivisti dediti a gonfiare ad arte la rabbia antisraeliana e antisemita in Europa? Perché, da anni, Ankara ha fatto della causa palestinese lo strumento perfetto di destabilizzazione del blocco euroatlantico: un grimaldello geopolitico per incendiare le periferie, infiammare le piazze, colpire l’asse israelo-occidentale. L’odio per Israele diventa così carburante per una guerra culturale combattuta in nome della Turchia neo-ottomana, islamista e revisionista. E a pagare il conto, spesso, sono le comunità ebraiche europee. Nel frattempo, la macchina della propaganda si affina. Hamas utilizza bambini, anziani e pentole come attrezzi di scena. Ogni lacrima è un ciak. Ogni posa, un’inquadratura studiata. Ogni fotografia, un’iniezione di colpa destinata al pubblico occidentale, sempre più pronto a farsi ingannare.
Ma perché siamo così propensi a crederci? Perché troppi utenti della rete, oggi, non cercano verità, ma conferme. Vivono in ambienti digitali filtrati – le famigerate echo chambers – dove la complessità è bandita, la compassione è un automatismo, e il frame tragico vale più del contesto. Ci siamo disabituati a pensare, a verificare, a domandarci: chi scatta questa foto? Perché? Chi ne beneficia? È lo schema perfetto: creare immagini false ma verosimili, infilarci dentro un’innocenza manipolata – un neonato, un volto impaurito – e poi gettarle nel mare aperto dei social e delle redazioni europee, dove si trasformano in verità virale. E funziona: la narrazione del popolo affamato ottunde la memoria del 7 ottobre, cancella gli ostaggi, cancella le responsabilità.
Gli analisti parlano chiaro: Hamas sfrutta queste immagini per nascondere il blocco degli aiuti da parte del gruppo stesso e le sue attività terroristiche, condotte con cinismo sotto la copertura di ospedali, scuole, infrastrutture civili. L’obiettivo non è informare, ma avvelenare. Non raccontare, ma incendiare.
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