Il nostro specchio
Achille e Ulisse, i divini personaggi che rispecchiano due modi opposti di affrontare la vita
Con chi stavate a scuola, con Achille o con Ulisse? I due personaggi omerici costituiscono i paradigmi di due modi opposti di affrontare la vita. Achille – il leone – alto e bellissimo, con la sua bionda criniera, è veloce, impulsivo, incapace di frenare gli istinti e differire il piacere, schietto, collerico, anche feroce, immaturo, vorace, irresoluto, incline a cantare e suonare. Vive interamente nel presente. Ulisse – il polpo – di bassa statura e non appariscente è invece lento, riflessivo, astuto, ingannatore, capace di reprimere gli impulsi e di nascondere le emozioni, sobrio, tattico, saggio, incline a narrare (il suo è un racconto seduttivo, retoricamente efficace).
Vive proiettato nel futuro. Nel tratteggiarne la fisionomia non ho fatto altro che sintetizzare le prime pagine del saggio di Matteo Nucci Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno (Einaudi Stile Libero), avventurosa escursione nell’antichità classica da parte di un agguerrito filologo on the road, uno studioso serissimo, competente, ma anche spigliato e digressivo (in ciò più vicino al saggista che allo studioso). Un saggio avvincente e utile, che evita, anche se per poco, il pernicioso “effetto Citati”, ovvero la libera e inventiva parafrasi di passi tratti da opere classiche, dove non si capisce bene se a parlare sia Omero o l’autore…
Se può interessare qualcuno io al liceo preferivo Achille ad Ulisse (d’ora in poi lo chiameremo con nome greco, Odisseo, per distinguerlo dalla immagine dantesca come eroe della conoscenza, estranea ad Omero). Ed ero in buona compagnia: diciamo da Leopardi (che vedeva in Achille una figura più vicina alla natura), ad Elsa Morante. In realtà parteggiavo, come tutti gli adolescenti, per Ettore, l’eroe sconfitto, trascinato da un carro nella polvere. Ma continuiamo nella lettura di Nucci, dove scopriamo che i due eroi sono entrambi pieni di contraddizioni: nelle parole di Elena a Priamo «uomini complessi come solo noi greci sappiamo essere, quella è la loro forza». In tal senso la stessa polarità antagonista tra i due potrebbe attenuarsi: non a caso all’inizio tentano entrambi, un po’ goffamente, di sottrarsi con uno stratagemma “all’arruolamento” per andare a combattere i troiani (uno travestito da donna l’altro fingendosi, inutilmente, pazzo). Ma su questo tornerò nelle conclusioni. Vorrei ora, trascurando un po’ Achille, soffermarmi sulla “intelligenza astuta” di Odisseo, la cosiddetta “metis”, quella intelligenza pratica, camaleontica, duttile (il polpo), capace di aderire alla realtà in tutte le sue sporgenze e usando ogni stratagemma, e perciò vincente (non distante dalla saggezza taoista). E anzi vorrei sottoporre a Odisseo alcune obiezioni di fondo.
D’accordo, a volte il vero non serve a nulla e solo l’inganno ci tiene in vita (lui non uccide Polifemo dormiente, altrimenti nessuno avrebbe spostato il masso che ostruisce la grotta: lo acceca e poi lo imbroglia). Ma siamo proprio sicuri che l’uso dell’inganno, nel lungo periodo, non metta a rischio la nostra vita dal momento che fa di noi degli esseri inaffidabili? In molti casi la sincerità non è premiata, e dire la verità può essere controproducente, come quando Neottolemo, che sceglie di dirla a Filottete ingannato, non ottiene altro che di farlo ritrarre dalla battaglia. E pensiamo anche alle bugie a fin di bene che possiamo dire a bambini o a malati o a persone le cui facoltà sono alterate. Ecco il punto: quando diciamo una bugia a qualcuno (“per il suo bene”, per non farlo soffrire) lo trattiamo come un bambino, come un minus habens e soprattutto ci arroghiamo il diritto di manipolarlo, di condurre noi il gioco. Un dietologo che inganna sul proprio cibo per convincere i pazienti “e vincerli nel loro desiderio più intimo” avrà probabilmente successo. Tuttavia non sempre, nell’esistenza, aspiriamo esclusivamente a “vincere”, a prevalere. La stessa politica non è riducibile solo – machiavellicamente – alla lotta per il potere, alla scelta di una strategia, a vincere: essa coincide anche con una dimensione educativa e autoeducativa, fatta di razionalità argomentativa.
E andiamo qui all’insegnamento più prezioso del saggio di Nucci. Achille e Odisseo sanno di essere sconfitti alla nascita, perciò cercano conforto nel canto. L’Iliade, grande poema di guerra, dimostra che non ci sono veramente nemici su questa terra, né vincitori e vinti (nessuna vittoria è definitiva, e il successo non è mai solo nelle nostre mani), ma solo esseri umani che si confrontano con la propria fragilità e vulnerabilità. Anche perciò – aggiungo – se la democrazia è una mezza bugia sugli esseri umani (finge di credere che siano i migliori giudici del proprio bene) il fascismo ne è una bugia totale, poiché rimuove quella intrinseca fragilità. Tutti gli eroi della mitologia greca piangono: “per essere uomini completi è necessario misurarsi con ogni parte di sé”, e, all’occorrenza, essere capaci di provare vergogna di una propria azione, per non ripeterla.
Mai temere il fallimento, dato che “falliamo sempre, noi uomini”. E alla fine l’eroismo significa esattamente questo: “vivere fino in fondo la propria condizione mortale”, immergersi nella propria stessa, ineluttabile, finitezza. Sapendo che gli dei – paradossalmente – ci invidiano proprio la condizione mortale, che rende la nostra vita così breve, irreplicabile, sacra, “e in fondo davvero divina”, superiore alla vita immortale: “solo ciò che è effimero è eterno”, dice un proverbio andaluso. Achille e Odisseo sono entrambi mortali, come tutti noi, “divini perché mortali”.
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