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Caro Michele Serra, sei diventato un orrendo trombone

Insegnante, giornalista e scrittore
Caro Michele Serra, sei diventato un orrendo trombone

Caro Michele Serra,
io me la ricordo, quella festa di Cuore. Quella della tromba d’aria. Spazzò via all’improvviso il campeggio di Montecchio Emilia sradicando alberi centenari del Parco Enza.  Giù, come stuzzicadenti. S’abbatterono su decine di tende forse vuote. La rovina roboante di quei tronchi secolari maestosi fracassati al suolo ci fece schizzare fuori dalle nostre tende lì vicino, risparmiate dallo schianto. Noi, pischelli adolescenti ed esili. Noi minorenni. Noi liceali. Noi “zecche” cuoriste dai quattro angoli dello Stivale. Noi. Senza pensarci troppo su, abbassammo le cerniere lampo delle nostre sconquassande canadesi per eiettarci nel mezzo della tempesta sotto le secchiate di pioggia. A cercare di sollevare, tutti insieme, quel tronco pesante qualche quintale, nella frenesia e allarme che sotto quel peso infame, dentro le tende divelte a terra, ci potessero essere non solo zaini, zaini e ancora zaini, ma anche qualche coetaneo o coetanea altrettanto imbibiti di terrore.

Mi ricordo di quella festa di Cuore, caro Michele, e all’epoca tu eri Il Direttore. Direttore del settimanale di Resistenza Umana per eccellenza, quello che era nato come costola de l’Unità, per poi vivere di vita propria, felice ed eccellente di prime pagine rimaste nella storia del giornalismo e della satira nazionale. Una per tutti: “Scatta l’ora legale: panico fra i Socialisti”. La tromba d’aria arrivò come ultimo atto di quella che oggi chiameremmo “bomba d’acqua”, ma nei primi anni Novanta dicevamo ancora “un temporale della Madonna“. Nel giro di poche mezzore si riunì in seduta straordinaria il Consiglio comunale della città di Montecchio Emilia.

In capo a un’ora, nemmeno due, ci vennero a prendere con gli scuolabus dal Parco Enza per trasferirci, corpi e zaini marci, nella scuola elementare di Montecchio, paesino del reggiano di qualche migliaio di residenti comunisti. Prima di sera, eravamo tutti accampati — ormai asciutti — sui pavimenti della palestra di quell’istituto, e addirittura il sindaco ordinò l’accensione dei termosifoni. Mi ricordo di questo dettaglio perché era il luglio del 1992, Michele, e nella mia scuola statale di Roma i termosifoni a scuola non li accendevano nemmeno a gennaio. E per farlo occorrevano scioperi e proteste. Forse esagero, sai com’è la memoria, ma concedimi l’iperbole. Intanto, il mattino dopo, al Parco Enza ormai baciato dal sole, un caterpillar seminava gioioso ghiaia asciutta sopra la poltiglia di pozzanghere fango e acqua. Nemmeno in Svizzera, pensammo sospirando noi Giovani Progressisti romani.

Sono passati tre decenni da allora, Michele. Io non sono più un tardoadolescente e tu non sei più un “giovane” diretur quarantenne. Oggi io sono un uomo di quasi cinquant’anni e tu sei entrato a tutti gli effetti nella terza età propria degli over 65. Che tu ci creda o no, siamo rimasti tutti e due di sinistra, caro Michele. Io però ho l’impressione di essere rimasto sempre fedele ai miei ideali di progressismo socialista-liberale, come da pischello, mentre tu sei  diventato un vecchio trombone, reazionario e conservatore nel modo in cui descrivi negativamente tutto ciò che non comprendi più ed esce fuori dalla tua routine, dalla tua area di comfort.

E’ questa l’impressione che ho derivato quando ieri ho letto la tua ennesima, indegna “amaca” intitolata “Ora i Paragone sono due”. Non è mica la prima volta che interpreti con strumenti novecenteschi fenomeni politici post-moderni e post-ideologici di cui non ti dai conto, caro Michele. Un po’ come chiedere a mio nonno di indicarmi la strada usando Waze (Miché: è l’app che fa le veci di Google Maps da qualche anno) anziché il suo spiegazzato e fedele Tuttocittà.

Ma questa volta hai fatto qualcosa di più e di peggio, Michele. Non posso scusarti col fatto che sei dentro all’ennesimo lutto pubblico dell’uomo di sinistra che ha perso ancora un’altra elezione politica, e quindi sragioni. No, non posso. La convinzione di essere sempre la parte migliore e “giusta” del Paese, perennemente incompresa, contro le scelte democratiche delle invasioni barbariche (film quebecchese che sono certo tu abbia visto, ma forse hai già troppo presto dimenticato: rimediare).

E’ vero che a essere onesti sono tre buoni decenni che non comprendi i fenomeni politici che ti circondano: hai trasformato in mera Banda Bassotti il craxismo, in barbaro razzismo il leghismo, in macchietta il berlusconismo. Non hai afferrato il populismo industrialesco del salvinismo, poi quello più volgare e più diffuso dei Cinquestelle. Ti ha spiazzato il riformismo laico e civile di Renzi (che pure a un certo punto ti sei sorpreso a sostenere e votare, almeno finché era in ecclesia plena salus, da bravo piccì coi paraocchi) e ora ti vedo sperduto dinanzi alle masse popolari di ogni età e condizione sociale che — dalle periferie, “dai campi e dalle officine” — votano per la prima donna premier della storia della Repubblica e del Regno: Giorgia Meloni. Percepisco il tuo stordimento, Michele, lo dico con affetto. Una donna politica di Destra e non femminista che brucia le tappe e coglie un record di genere che mai nessuna donna di sinistra ha potuto accarezzare.

Ma quando scrivi di quei circa due milioni e duecentomila elettori italiani che hanno votato per Renzi e Calenda sono elitari e ininfluenti, e riduci quel 17,6% preso fra gli elettori al primo voto come “i giovani dei bar del centro”, mostrando tutta la tua piccineria provincialotta da milanese acquisito e imbruttito, mi susciti un sentimento di ribellione. Michele, ma da quant’è che il PCI o come si chiama oggi (vedasi ultime riflessioni del sempreministro Andrea Orlando) non prende la maggioranza dei voti degli elettori nella fascia 18-24 anni? Credo ci fosse ancora in vetrina la Fiat 131, l’ultima volta che accadde.

Ebbene, all’alleanza Azione-Italia Viva questo risultato è riuscito alla sua prima prova politica nazionale. Il 17,6% degli elettori più giovani si è fidato e ha condiviso il programma e la classe dirigente proposta da Carlo Calenda e Matteo Renzi. Forse perché proponevano poco ma fattibile, rispetto agli altri. Forse perché sono i veri artefici del governo Draghi e della famosa Agenda Draghi (che esiste, eccome se esiste: basta leggere il PNRR scritto dall’ex capo della BCE).

Forse perché erano gli unici a tenere in conto i bisogni e le urgenze di chi non è interessato a pre-pensionare nessuno, perché la sua pensione, di questo passo, non l’avrà mai. O magari perché quei giovani — come penserai tu, da bravo reazionario agée — sono ingenui e giuggioloni. Si sono fatti abbindolare da quelli che per te sono due parvenu della politica, uno dei due addirittura in salsa araba assai speziata. Chissà. Eppure non è male riuscire a farsi votare dai più giovani, se fai politica. A maggior ragione se non ti fai latore di un messaggio da estremista anti-sistema, ma risulti comunque radicale nelle idee e nella visione.

Il punto è che tu, per una stagione felice, a noi giovani invece ci hai capito. Ci hai colto. Cos’altro era Cuore e le sue feste, se non un fenomeno soprattutto generazionale, ma anche inter-generazionale? Una roba fresca, fuori dagli schemi, un po’ matta, felice, originale, sperimentale. Così come lo era lo stile satirico del tuo giornale, inventato quando tu eri giovane dentro, e i fenomeni nuovi non ti facevano inorridire, ma ti incuriosivano. Ecco cosa hai perso, Michele, in tutti questi anni: hai perso la capacità di provare curiosità per ciò che non capisci.

Non sto qui a farti la difesa d’ufficio di Carlo Calenda, che tu descrivi in modo un po’ meschino come “redentore mancato” e di Matteo Renzi, che senza un’oncia di originalità collochi in Arabia come se l’Arabia Saudita di oggi fosse un Paese più infame dell’Urss dei gulag, della Russia di Putin, dell’Iran teocratico, della Cina fintocomunista o della Nord Corea con tanto di stella, falce e martello e pettinatura obbligatoria: tutti Paesi con cui diversi politici incorniciati nel tuo Pantheon hanno sguazzato prima, dopo e durante i linciaggi etnici, omofobici e misogini.

Io, del tuo ragionamento di ieri, difendo intanto gli Ugo La Malfa e Malagodi, che tu releghi a ruoli ancillari e ininfluenti dimostrando per l’ennesima volta di non aver capito un ette nemmeno della politica della Prima Repubblica.

E soprattutto difendo quei militanti e simpatizzanti ed elettori giovani e giovanissimi che hanno preferito, come me, la visione e le idee di Calenda e Renzi. Sono la generazione dei miei studenti liceali ed ex studenti: hanno familiarità col pensiero politico di Emilio Lussu o dei fratelli Rosselli. Conoscono ciò che disse Calamandrei sulla centralità della Scuola pubblica. Ricordano le topiche di Ugo La Malfa sui danni della tv a colori, ma sanno anche della bontà della politica dei redditi del fu PRI.

Sono giovani che interpretano il termine “meritocrazia” in modo positivo, con buona pace delle minchiate sesquipedali sparate dalla intellò kakistocratica Federica d’Alessio. Vorrebbero vedere quel principio della meritocrazia applicato anzitutto a noi docenti di scuola pubblica e d’università, come il dato seminale da cui partire per una riforma di questa sgangherata pubblica istruzione che ha subìto non solo troppe riforme, ma troppo contraddittorie fra loro. Una scuola pubblica che ancora oggi — fattelo dire — di “aziendale” non ha nulla. Infatti non assume i suoi lavoratori-docenti in modo diretto o per le loro competenze, e non li può licenziare.

Noi docenti siamo cooptati soprattutto in quanto mamme maritate e con prole (un dottorato vale 5 punti, ma un coniuge ne vale 6, come un figlio, e di figli se ne possano fare n), possibilmente residenti nei dintorni degli istituti, e pagandoci una fame. Perché con la più parte delle donne, finora, questo si è sempre potuto fare. Ecco, tu con la tua amaca hai mancato di rispetto a quei giovani elettori italiani. E’ per questo che, stavolta, ho deciso di dirti basta. Fassbinder diceva che “ciò che non siamo in grado di cambiare, dobbiamo almeno descriverlo”. Ma se non lo capisci più, Michele, puoi anche evitare di descriverlo.