Cosa vuol dire fare lobby? È sempre difficile fare capire in cosa consiste il mio mestiere, soprattutto in questi giorni di Qatargate nei quali, cito testualmente, dei lobbisti è stato detto che “pascolano per il parlamento ed esercitano lusinghe reputazionali ed estetiche”. Non mi arrabbio più di tanto perché la descrizione è talmente criptica da risultare quasi (quasi!) innocua.
Evidentemente c’è ancora bisogno di dirlo. Il mestiere del lobbista non ha nulla a che fare con i pascoli, le lusinghe reputazionali ed estetiche e, tantomeno con le valigie piene di contanti di cui si è parlato in questi giorni nelle cronache giornalistiche. Non sta a me stabilire cosa ci facessero quelle ricche valigie nelle case dei protagonisti del Qatargate. Posso invece affermare a gran voce che le mazzette non fanno parte del mestiere del lobbista, ma di quello del delinquente. Sempre che quest’ultimo si possa definire un mestiere. Quindi quelli non sono lobbisti.
In generale, attribuisco questi giudizi offensivi sulla professione che svolgo alla semplice ignoranza di come realmente funziona il nostro lavoro. Per alcuni semplice, per altri gravissima ignoranza. Ed è proprio per questo che qualche anno fa, con la mia società Telos A&S, abbiamo deciso di lanciare la video-rubrica Lobby Non Olet, ”la lobby non puzza”, dove intervistiamo gli esperti del settore: professionisti, accademici, osservatori e studiosi del tema.
Questo mese è stato nostro ospite Rocco Renaldi, fondatore e socio di Landmark Public Affairs. Per chiarire cosa sia la lobby, gli abbiamo chiesto di farci un esempio di un lavoro seguito dalla sua società. “Quella del veggie burger è una campagna su cui abbiamo lavorato qualche anno fa a Bruxelles. Si partiva da una proposta di legge europea, un emendamento che avrebbe vietato la denominazione di burger, soprattutto in alcuni mercati dell’Unione europea, e questo avrebbe rappresentato uno svantaggio per i prodotti non a base di carne.” spiega Renaldi.
La campagna vedeva schierati, su posizioni contrapposte, due gruppi di interesse: da una parte la lobby dei produttori di carne, un settore in difficoltà, e dall’altra la lobby delle aziende produttrici di veggie burger, accompagnata da alcune associazioni ambientaliste e di consumatori, secondo cui le così dette fake meat erano in linea con gli obiettivi di protezione ambientale delle istituzioni europee.
Alla fine ha avuto la meglio il secondo gruppo. E gli hambuger vegetali si possono chiamare burger, a patto che per il consumatore sia chiaro che il prodotto non contiene carne. Se avesse vinto l’altro gruppo di interesse, i produttori delle alternative vegetali avrebbero dovuto inventare nomi fantasiosi per dare l’idea del prodotto. Io, in italiano, avrei prosaicamente suggerito “polpette”.
Invece, è successo l’inverso per i surrogati del latte. Le Istituzioni Europee hanno deciso che, per esempio, non è possibile usare la parola “latte” associata alle bevande vegetali. Niente più latte di riso, soia e nemmeno di mandorla o di cocco.
Ecco come funziona la lobby. Uno “scontro” tra argomentazioni, supportate da studi e, talvolta, anche da ragionamenti di natura etica. A volte si vince, a volte si perde. Si vedono fake meat e real meat, fake milk e real milk. Ma non si vedono le mazzette.
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