Mario Draghi ha dato prestigio al governo della Repubblica come nessun altro statista mai, superando di slancio anche il primo De Gasperi.
Con Draghi, l’Italia in cima al mondo
Per 17 mesi l’Italia ha giocato un ruolo di leadership nel mondo – non solo dentro la Ue, ma anche nella Nato e nell’Onu – come non era mai successo prima. Tuttavia, il Senato della Repubblica, composto in larga parte da trasformisti inetti e protervi, uomini e donne incompetenti, politicanti ignoranti e masochisti, ha disperso quel patrimonio nazionale, negando la fiducia al discorso programmatico oggi noto come “Agenda Draghi”. E quindi andremo a votare il 25 settembre, come sappiamo dagli sviluppi successivi.
Una comunicazione politica brillante e dritta al punto
Uno dei motivi del formidabile prestigio di Draghi nel mondo, al di là delle sue profonde e forse uniche competenze di politica economica e monetaria, di economia politica e di relazioni internazionali, è la sua brillante comunicazione politica. Una dialettica asciutta e stringente, una retorica ridotta all’osso, un registro poliforme e polisemico, un lessico colto ma temperato dalla volontà di risultare sempre comprensibile, una sintassi lineare che rivela la sua passione per l’andare subito al nocciolo di ogni questione, punto. Una grammatica inappuntabile.
Lo dico da esperto di comunicazione: Draghi, in pubblico, ha un registro e uno stile del tutto privo di fronzoli e di ridondanze. Ha affinato il suo lessico eliminando gli avverbi, soprattutto quelli di modo, e usando con estrema parsimonia anche gli aggettivi. Più di una volta, durante le conferenze stampa, le sue risposte sono state, al dunque, monosillabiche: “Per quanto riguarda la sua prima domanda, sì; per quanto riguarda la sua seconda domanda, no.” e poi dava la parola al prossimo giornalista.
Una chiarezza calviniana
La retorica di Draghi è così lineare da costituire una sorta di unicum nel panorama politico nazionale, ma anche internazionale. Fatico a ricordare statisti con una parlata altrettanto chiara e limpida; forse solo la Golda Meir dei tempi d’oro, quella che al termine di un lustro come Prima ministra d’Israele, nel 1974, alla domanda di un giornalista che le chiedeva “Lei ha contribuito come nessun altro alla nascita di una nazione. Quale altro suo desiderio è rimasto inappagato?” rispondeva: “Dormire. Voglio proprio dormire come una vecchia che è stanca dì viaggiare, di discutere, di arrabbiarsi…”.
L’antitesi con lo stile circonvoluto di Conte
Guardando al panorama italiano, non vi chiedo di rammentare l’estenuante prosa dedalica di Aldo Moro o quella bizantino-intellettuale di Ciriaco De Mita, che miravano a confondere pur conservando un aggrovigliato ma pregno senso politico a più livelli. Vi chiedo di paragonare il registro retorico, dialettico e lessicale di Mario Draghi a quello circonvoluto, fastidiosamente rococò, pseudo-giuridichese e dalla traballante dizione, sintassi e grammatica dell’avvocato Giuseppe Conte: due universi non comunicanti, nemmeno tramite buco nero. Due modi di parlare e di pensare che non hanno nulla in comune. Sono antitetici.
Chi parla male, pensa male
“Chi parla male, pensa male e vive male”, diceva il personaggio morettiano di Michele in Palombella Rossa. E chi parla in modo ambiguo e confuso usa le parole per nascondere le proprie intenzioni o perché non sa quali siano le proprie mire. Conte aveva promesso di ritirarsi dalla politica se fosse caduto il suo governo con Salvini. Poi ha cambiato idea, ma del resto l’ha cambiata anche su tutti i punti programmatici del M5S: Tap, Tav, Ilva, Ue, Euro, Nato, rapporti con la Russia, rapporti con la Cina, alleanze politiche, coalizioni, presenze nei talk tv, bonus Renzi, spesa militare, greenpass, mandato zero e potrei ben continuare.
Ieri si dichiarava fieramente populista e sovranista, oggi si dichiara progressista e democratico, ma se stringerà un accordo con la sinistra estrema, come pare possibile in queste calde ore, non mi stupirei se si dichiarasse comunista. E’ il re di un camaleontismo claudicante e purchessia, sprovvisto di cultura e di logica, ma spesso anche di semplice raziocinio. L’essersi astenuto dal dare la Fiducia al governo Draghi, senza far dimettere i suoi ministri è l’emblema di questa sua costante danza del grancio: due passi verso destra e uno verso sinistra, ma sempre di lato.
L’importanza della parola di Draghi
Draghi, al contrario, ha acquisito prestigio internazionale anche perché la sua parola è diventata – per tutti: dagli attori della economia internazionale a quelli dell’arena politica, ai giornalisti – una sorta di monade simile a quella di 2001 Odissea nello spazio. Dieci anni fa salvò l’Euro con una frase lineare e semplice ma insieme perentoria e dolce nel modo in cui fu indirizzata alla comunità mondiale: «But there is another message I want to tell you. Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough.» Anche se tutti ci ricordiamo solo il “Whatever it takes”, la parte forte di quella sua famosa affermazione è semmai la chiosa: “E credetemi, sarà abbastanza”.
Draghi, dunque, è uomo di parola, e ha sempre una sola parola. Durante la crisi ha detto in modo inequivocabile: “Io ho già detto che per me non c’è un governo senza M5S né c’è un governo Draghi oltre quello attuale.” Suggerisco a Calenda, Renzi e Letta di riguardare quella risposta e di intenderla non in relazione alla congiuntura della crisi, ma in modo assoluto.
La voluta ruvidezza della replica in Senato
L’esperienza da Presidente del Consiglio, Draghi ora l’ha fatta. Dalla ruvidezza con cui ha risposto in Senato il giorno in cui si è dimesso per la seconda volta – 5 minuti in cui ha ribadito i medesimi concetti del suo bellissimo discorso del mattino, adottando un registro basso e volutamente offensivo nella sua elementarietà, rivolto a quelle senatrici e senatori che non erano in grado di comprendere un testo in lingua italiana – possiamo dire che è rimasto disgustato. Il motivo è semplice: per 17 mesi ha dovuto misurarsi, come ha scritto Flavio Briatore, “con il bibitaro, la Signora Pina, quello con la terza media, l’ex velina, la lavandaia, l’ex tronista, il dj, il diplomato alle scuole serali, l’odontotecnico.” E’ elitario e poco democratico dirlo, ma quello è il livello della media del Senato della Repubblica di oggi, grazie al voto del 2018 degli italiani.
Il bisogno di nuove sfide complesse
Mario Draghi è quel tipo di persone geniali che hanno bisogno di sfide complesse per divertirsi. Sono annoiati dalla routine e anzi la disprezzano, rifuggono dal tran-tran. Il contrario esatto della mentalità da impiegato del catasto che ha vinto la lotteria di Luigi Di Maio. Ora che ha toccato con mano il livello infimo dei rappresentanti del popolo italiano, non vuol tornare ad averci a che fare. Né come premier, né come Presidente della Repubblica.
Cosa c’è all’orizzonte per Mario Draghi
Molto più probabile che ora abbia voglia di tornare ad ambienti internazionali in cui ex tronisti e tiemmini non siano i suoi interlocutori abituali. Fra appena un anno scade il prolungamento del mandato di Jens Stoltenberg come Segretario generale della Nato. E’ lì che vedo Mario Draghi interessato: guidare la Nato durante una nuova fase incandescente della guerra fredda, nel bel mezzo del suo più rilevante ampliamento in Scandinavia, dovendosi confrontare con un autocrate odioso come Putin. E’ quello il posto di difficile responsabilità cui Draghi oggi mira. E non credo che nessuno, nella Nato, possa sperare in uno statista più qualificato. Draghi potrebbe ricoprire quell’incarico fino al 2026, quando poi scade il secondo mandato di Antonio Guterres quale Segretario generale dell’Onu. E poi, finalmente, nel 2030, la pensione.
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