Ieri mi è capitato di vedere, bighellonando su Youtube, il video (pubblicato tre settimane fa ma risalente al novembre 2019) di un dibattito televisivo sui vegani. Si tratta della puntata sul tema dello show di Del Debbio, che, immagino, andasse in onda in prima serata su qualche rete mediaset. Gli ospiti: una nota mamma vegana autrice di un libro, un’attivista dell’associazione “Iene Vegane”, Cruciani, Nozzolino e Jacopo Fo. La visione di questo video mi ha rinverdito la convinzione che i cosiddetti talk show di approfondimento siano del tutto inutili. Anzi, tossici. Tanto per gli individui quanto per l’intera comunità.
Novelle crociate
Vediamo prima il merito della questione, poi chiuderò con alcune considerazioni generali.
Nel citato video si discute, come accennato, della filosofia e della dieta vegana. Nel farlo, però, non si coglie l’occasione per sottolineare in modo assertivo e posato le contraddizioni delle posizioni espresse dagli ospiti vegani in sala. Al contrario, si passa da una provocazione all’altra, buttando in vacca di continuo la discussione ed esasperando concetti che sarebbero anche condivisibili, se posti in modo serio.
Alcuni esempi:
1 – I Rompic******i – ovvero la questione della militanza attiva.
Tra i vari, pregevolissimi, contributi di Cruciani, spicca il suo accorato e sagace appello “fate quello che volete, ma non ci rompete i c******i!!”. Peccato che, in studio, nessuno degli ospiti vegani avesse portato in discussione il tema del “proselitismo”. Che fosse finzione o genuinità, tutti si dichiaravano a favore della libertà di scelta. Ora, l’esternazione di Cruciani è sacrosanta nel momento in cui, al ristorante, mentre stai per addentare il tuo medaglione di filetto alle erbe, compare un vegano e ti accusa di assassinio. Molto meno in un salotto nel quale le persone vengono invitate apposta per esprimere la loro posizione. Ovviamente peroreranno la loro causa, altrimenti sarebbero ospiti inutili. Dunque, rispondere ai loro argomenti nel modo descritto è pura retorica (da saltimbanchi, non certo da agorà ateniese).
Piuttosto, sarebbe stato interessante far notare agli ospiti vegani che, in verità, fermo restando che sicuramente ci sono persone più moleste e altre più rispettose, è effettivamente abbastanza facile incappare in vegani che, lungi dal tenere gli occhi nel loro piatto, si lanciano in iniziative moralizzatrici dei commensali (o dei partecipanti a manifestazioni di folklore, ad esempio). Difficile per i vegani negarlo. Infondo, è anche piuttosto inevitabile.
Chiunque si convinca di conoscere il “giusto” (e di comportarsi di conseguenza), è portato a non confinare questa verità a sé stesso, intervenendo anche sull’operato altrui. Lo fanno i vegani come i cristiani, come anche i comunisti e via dicendo. Lo fa (o ci aspettiamo che lo faccia) chiunque di noi sia spettatore di un’azione contraria ai valori alla base della nostra comunità. Se vediamo qualcuno picchiare selvaggiamente o adescare un bambino (o, finalmente, anche picchiare un animale), non pensiamo “beh, ciascuno ha la sua etica. Lo rispetto!”.
Tuttavia, è importante comprendere che è assolutamente normale che, così facendo, si ingeneri ostilità nei propri confronti da parte di chi, legittimamente, è animato da diversi valori o è convinto di onorare gli stessi attraverso condotte differenti. Tanto più se queste ultime sono accettate in modo consolidato nella comunità di riferimento. Il vegano, facendosi portatore di una posizione “originale” (giusta o sbagliata che sia), deve compiere una scelta: o trova la forza di non sindacare le condotte altrui, o accetta il fastidio dei suoi target.
Peraltro il tema in questione, il cibo, è particolarmente intimo. Mangiare è, allo stesso tempo, un’azione basilare dell’esistenza, un simbolo psicologico di enorme portata e uno dei principali veicoli di socialità. Pretendere che si possa andare dal prossimo e scuoterlo in una sfera così profonda semplicemente perché si ritiene di aver “visto la luce” è sintomo di grande superficialità e arroganza. Quand’anche la causa vegana fosse condivisibile, ci sarebbero modi e tempi da mettere in conto. Altrimenti, si agisce in modo infantile, dimostrando di essere mossi non da ragioni obiettive ma da frustrazione e ignoranza.
2 – La “condanna alla categoria” – ovvero il problema degli allevamenti intensivi.
Altro esempio di argomento serio affrontato in modo da buttarlo in vacca è quello degli allevamenti intensivi. Sempre Cruciani, di fronte ad un servizio di denuncia delle condizioni inenarrabili di un allevamento intensivo e alle argomentazioni dei vegani in sala, sbotta. Sempre con toni “sgarbiani”, invoca vergogna, sostenendo che si condanna un’intera categoria e che il comparto in questione offre sostentamento economico a un sacco di famiglie.
Ora, chi scrive ritiene che quello degli allevamenti intensivi e della mercificazione consumistica della vita sia il vero tema cruciale in fatto di etica verso gli animali. Che l’uomo tratti come materia inanimata esseri viventi e senzienti, ignorando il loro dolore (fisico e psicologico) per ragioni di massimizzazione del profitto, è un’indegnità inenarrabile. Macellare bestie per poi buttare tonnellate di carne scaduta è qualcosa di criminale, così come molti dei metodi crudeli di allevamento e di abbattimento che vengono utilizzati, soprattutto nelle grandi realtà industriali.
Verissimo è che non tutti gli allevamenti intensivi sono “lager”. Altrettanto vero è che, al di là dei romanticismi propagandistici, l’impresa è fatta per massimizzare i profitti. Nulla sopravvive, a meno che non intervenga la legge, a quel criterio. Lo vediamo anche quando si discute delle condizioni dei lavoratori. Non l’impresa della carne, ma l’impresa in generale (e, purtroppo, la nostra intera società) è animata da quel principio fondamentale. Per cui, mi spiace, ma sono portato a credere che – magari non per avidità, ma per sopravvivenza – qualunque impresa che debba produrre utili mercificando le vite, sia portata a soprassedere su alcune questioni etiche laddove la ragion di profitto si manifesti in tutta la sua virulenza.
Dunque sarebbe interessante affrontare in modo critico questo punto e capire il sentimento dell’opinione pubblica in merito. Scopriremmo, magari, che alla domanda “smetteresti di mangiare carne?” risponderebbe”No” la stragrande maggioranza dei cittadini. Invece, alla diversa domanda “saresti disposto/a a mangiare un terzo della carne (pagandola il triplo), per consentire di sopravvivere solo ad allevamenti di alta qualità che rispettino determinate condizioni?” risponderebbero “Si” in moltissimi, forse la maggioranza. Avremmo raggiunto un risultato apprezzabile se passasse culturalmente e giuridicamente un veto alle forme di allevamento intensivo e alla mercificazione della vita animale, no?
Ma metterla sul piano del diritto al reddito per imprese e lavoratori del settore è un modo per mandare tutto in vacca. L’argomento è inconsistente, di per sé non giustifica nulla. Magari anche il settore delle mine anti-uomo a forma di giocattolo dà lavoro a moltissime famiglie. Anche la criminalità internazionale, il mercato della droga, offrono occasioni di reddito a masse enormi di esseri umani, vogliamo preservarle per questo? Anche no. Dunque, ci vuole altro.
Entro un attimo nel merito. La questione è dirimente perché, mi spiace per i vegani, ma avendo avuto la gioia di trascorrere mesi e mesi nella mia infanzia tra le bestie al pascolo, avendole guardate negli occhi, accarezzate, essendoci passato in mezzo, non posso proprio condividere chi – magari mai uscito dal grigio di una città e documentatosi solo per mezzo di video/articoli denuncia su internet – sostiene che non vi sia differenza tra il pascolo e l’allevamento intensivo. Risolto questo drammatico punto (che impatta anche molto sulla qualità del cibo che ingeriamo e sul nostro regime alimentare), avremmo poi più libertà di affrontare discussioni etico-filosofiche sulla correttezza o meno di allevare animali per ucciderli.
Affrontiamolo (in breve). Parliamo di animali che, senza l’allevamento, nemmeno esisterebbero e non sopravvivrebbero in natura, che si sono evoluti con noi e che – infondo – da un punto di vista della competizione evolutiva hanno stravinto (come specie), dal momento che la mucca e la gallina hanno colonizzato il mondo, a differenza di tanti colleghi selvatici che rischiano l’estinzione da un momento all’altro (magari per colpa dell’uomo stesso.. magari per fare spazio a coltivazioni di avocado e cereali… ma tant’è).
Inoltre, non voglio entrare troppo nella questione poi del cosa sia “naturale” perché dovrei scrivere un articolo intero solo su questo. Detto in breve: tutto ciò che è in natura è naturale, noi siamo naturali, quindi quello che facciamo è “naturale” sia che produca dolore (o inquinamento), sia che produca piacere (o protegga l’ecosistema). La naturalità di qualcosa o qualcuno è un argomento insensato (vale per chi vuole bollare di innaturalità le diete, così come per chi vuole bollare di innaturalità certi orientamenti sessuali). Il vero punto è stabilire cosa sia tollerabile e cosa no in base ai nostri valori, non cosa sia naturale o meno. Pararsi dietro la presunta “naturalità” delle cose è uno scarico di responsabilità, un sintomo di ignoranza e un comportamento dogmatico simil-confessionale.
Gli organismi si evolvono, adattandosi alle condizioni ambientali, per sopravvivere e prolificare il più possibile. Quindi, dire se sia giusto selezionare specie ed allevare capi per poi servirsene (per mangiarli o per fargli tirare i pesi) è discussione molto sfuggente. Sempre in tema di naturalità, lo steso vale per la dieta umana. L’uomo digerisce la carne e ne trae elementi nutritivi, dunque è anche carnivoro. Guardando alla natura, l’uomo è fatto per sopravvivere abbastanza da procreare, non per vivere 120 anni in piena salute, dunque tutto quello che gli fornisce benzina per compiere la sua rapida missione è “naturale”. Magari, se iniziassimo a mangiare solo verdura, fra qualche millennio i meccanismi selettivi/evolutivi ci renderebbero “vegani” biologicamente, perchè no? Lo stesso dicasi per la carne. Oggi siamo onnivori. In natura funziona così. Lasciamo quindi perdere queste argomentazioni viziate da bias derivanti da scarsa cultura.
Che poi uno, mangiando quotidianamente carne di scarsa qualità, proveniente da animali cresciuti a ormoni, antibiotici e cortisolo da stress, grassissima, cucinata nel peggiore dei modi, aumenti di qualche punto percentuale le probabilità di avere un infarto o un cancro al colon.. Beh, grazie! Magari anche mangiando quotidianamente quintali di cereali stoccati in silos contaminati da muffe tossiche o di cibi fermentati ultra lavorati, oppure mangiando solo ortaggi tirati su a pesticidi e gonfiati ad acqua, prima o poi ci si ammala gravemente. Bella scoperta.
Combattiamo dunque la mercificazione della vita senziente, lo spreco, la crudeltà per profitto. Combattiamo il consumismo anche alimentare, utile solo alle tasche di chi vende e dannoso per la nostra salute. Questo è un tema molto poco opinabile e di sicura convergenza di massa. Il resto, beh, lasciamolo alla libertà individuale.
3 – La grande truffa del cibo vegano – Ovvero la normalità del marketing alimentare.
Altro giro, altra boutade del nostro eroe (sempre spalleggiato dal conduttore, mai da meno). Si accusa un ospite, produttore di cibi vegetali “simil-carne”, di una “mezza truffa”, dal momento che chiama “straccetti al gusto di pollo” un suo prodotto.
Ora, non so nemmeno da dove cominciare per smontare quella che, invece, è una “truffa” retorica a carico dell’audience meno accorta. Primo, mettiamo da parte la questione “truffa” (ne parleremo dopo) e ragioniamo di, come dire, serietà e dignità. Concordo con i nostri eroi carnivori che, se mi chiami una roba fatta di… boh… seitan? “Bresaola vegana”, sminuisci un pochino la tua causa. Peraltro, “bresaola” è un nome che identifica un prodotto ben preciso. Non è un nome descrittivo, è un nome proprio. Al di là del fatto che la legge lo consenta, se chiami così una cosa fatta di verdure, un po’ mi fai tenerezza, un po’, effettivamente, strizzi l’occhio al consumatore poco brillante.
Diverso è il discorso dello “straccetto al gusto pollo”. Sarà anche verissimo che, usualmente, il termine “straccetto” è riferito alla carne, ma è altrettanto vero che non è un nome proprio. Esistono, nella cucina tradizionale, le polpette di melanzane e il salame di cioccolato. E allora? Peraltro, dubito che chiunque possa essere indotto in errore e comprare un prodotto simile pensando di mangiare carne, perché di solito la differenza, sia nel packaging che nell’aspetto dei prodotti, è lampante. Perché, dunque, provocare inutilmente? Per quale ragione farlo in riferimento a un caso specifico che, peraltro, è oggettivamente poco centrato, in quanto molto meno controverso di altri? A che scopo, comunque, demonizzare un imprenditore che non fa altro che tradurre nel suo campo le pratiche discutibili che il nostro avanzatissimo e Justissimo diritto ritiene lecite in tutto il settore del marketing alimentare?
Si possono vendere bevande chiamandole “succo di…” quando magari contengono percentuali ridicole del frutto in questione. I disciplinari di vini e formaggi a volte consentono di dare un nome protetto (con tanto di DOCG o DOP) a prodotti che hanno pochissimo in comune con i prodotti tradizionali da cui derivano (si pensi alla tristissima vicenda del Bitto della Val Gerola). Il packaging è, spessissimo, una truffa legalizzata, basti pensare alle confezioni enormi mezze vuote, ad esempio.
Vogliamo poi parlare dei nomi di prodotti e marchi mantenuti appositamente distinti pur se tutti appartenenti allo stesso gruppo multinazionale e prodotti in stabilimenti identici, al solo scopo di fomentare la fidelizzazione e la percezione di scelta per il consumatore? O dei prodotti “senza zucchero”?Senza entrare nel tema complesso degli ingredienti, dei criteri di tossicità e via dicendo. Il marketing alimentare (e non solo) è, se lo si guarda con occhi profondamente genuini, una immensa truffa legalizzata, altra bella scoperta. Combattiamo questa logica (il cui driver è sempre il profitto) in generale, questo si. Altrimenti, lasciamo stare.
4 – La medicalizzazione dell’esistenza – Ovvero la dieta medicalmente assistita (dei bambini).
Passiamo, in ultimo, a un argomento emerso rispetto al quale, invece, mi sento di essere univocamente critico rispetto alla posizione vegana. Anche questo, purtroppo, è stato presentato condito da un intervento censurabile di un membro del pubblico parlante, che ha abbassato immediatamente il livello della questione da lui stesso sollevata.
Si discute della sostenibilità medica della dieta vegana, visto che il gancio d’apertura è proprio la notizia di un bambino finito in ospedale a causa di una dieta sbagliata imposta da genitori dichiaratisi vegani. In particolare, si discute del tema con riferimento alla dieta nel periodo infantile. Emerge, dalle posizioni esternate dalla mamma vegana, dalla Iena Vegana e dalla nutrizionista in studio, che la dieta vegana può essere sostenibile, purché si venga costantemente seguiti da un nutrizionista. Di più, un’altra madre vegana dal pubblico afferma che porta costantemente sua figlia in ambulatorio per fare esami, al fine di monitorarne la salute in ragione del regime alimentare seguito.
Ora, la questione pone di ordini di problemi. Il primo è economico/pratico, il secondo è di principio e, se vogliamo, educativo/psicologico.
Per quanto riguarda il primo, mi chiedo se chi si fa latore della causa vegana non si domandi se si possa considerare sana e sostenibile una dieta che, per non implicare scompensi, pretenda di accorgimenti e una cultura così approfonditi, fino addirittura ad arrivare allo screening medico periodico. Mangiare è un’attività basilare, quotidiana, automatica. Non stiamo parlando di qualche sport estremo che, chi vuole, può scegliere di praticare, magari due volte l’anno. Come si può pensare che possa diffondersi massivamente qualcosa che, per essere praticata in modo sicuro, richiede un’investimento di energie e di denaro stressanti per chiunque e possibili non per tutti? Quello economico è, infatti, un altro tasto rilevante.
Mi chiedo spesso quanto costi una dieta vegana veramente sana, completa e diversificata, appagante per il gusto e non più complessa e dispendiosa di energie e tempo di una dieta onnivora. Se poi aggiungiamo (per me una novità) gli screening medici periodici, sono certo della risposta: troppo, per la grande maggioranza delle persone comuni. La gente non ha i soldi per andare dal dentista o per farsi le TAC in tempi congrui, figuriamoci per essere seguita da un nutrizionista in modo costante al solo scopo di non causarsi, mangiando, danni gravi, diretti e imminenti alla salute.
Sarebbe come se cittadini mediamente abbienti, residenti in quadrilocali di 130 metri quadrati minimo, con ampio giardino e impieghi fattibilissimi in smart-working, si mettessero a moralizzare il Paese circa il fatto che il lockdown, infondo, non sia poi così male, a fronte dei benefici ambientali. Sarebbe tollerabile? Cosa ne penserebbero le grandi masse di persone che, con fatica, per tirare a fine mese, devono vivere in case piccole e che se non possono recarsi in loco a lavorare perdono il reddito?
E non c’entra nulla il fatto che mangiare la carne della GDO o il junk food faccia venire il cancro. Il punto è paragonare la dieta vegana e quella onnivora a pari condizioni. Una dieta onnivora mediterranea composta da prodotti di qualità è o non è, a parità di costi, appagamento, facilità di fruizione, più sana? Una dieta di questo tipo, cioè, rende necessario il medico per non avere danni importanti in tempi brevi? Io credo di no. Questo deve far riflettere.
C’è poi il punto psicologico/educativo. Possiamo definire sano uno stile di vita che obbliga un bambino sano a sottoporsi costantemente al vaglio dei medici? Che effetti psicologici insorgono (e con quali conseguenze sia per l’individuo che per la collettività) abituando le persone a essere costantemente focalizzate sulla patogenicità delle loro condotte, anche quelle più spontanee e non unanimemente considerate nocive? Mandare in ambulatorio una volta al mese un bambino per fargli scoprire se è o non è “malato” a causa di come mangia, che effetti ha sui suoi equilibri emotivi?
Il mercato delle opinioni
S’è visto, quindi, come argomenti che, nel merito, potrebbero anche essere interessanti, vengano affrontati in modo macchiettistico e banalizzante. Il motivo? La necessità di fomentare pregiudizi reciproci che alimentino il “mercato delle opinioni”. Un personaggio come Cruciani, ad esempio, abusa (magari inconsciamente, non saprei) di automatismi psicologici dell’audience (di tutti, anche miei, sia chiaro), per aumentare il proprio seguito. Pare porsi come difensore della causa anti-vegana (già di per sé una costruzione mediatica), ma non lo è. Infatti, sa benissimo (essendo tutt’altro che stupido), che così facendo non porta nemmeno un grammo di grano al mulino della sua “squadra”.
Sa anche, però, che chi è fortemente schierato continuerà a seguirlo. Qualcuno per l’appagamento di sentire “uno che gliele canta” e, altri, per biasimare “quel servo delle multinazionali della carne”. Al contrario, chi vuole approcciarsi in modo critico alla questione, perderà interesse. Peggio, potrebbe finire per polarizzarsi acriticamente a sua volta, reagendo all’urto di argomentazioni così snervanti. Lo stesso accade con altri personaggi di simile atteggiamento, penso ad esempio a Burioni, in tutt’altro campo.
Non vale, ovviamente, solo per questo show, per questa emittente o per queste reti. La natura di questi contenitori è, pur con alcune differenze di stile, trasversale. L’obiettivo è quello di sfruttare il desiderio di informazione degli spettatori circa temi di attualità (a volte anche rilevantissimi) per fare audience. Tuttavia, l’approfondimento vero non incolla grandi masse allo schermo per due o tre ore. Per questo, in realtà, dietro la copertina dell’approfondimento, c’è solo puro spettacolo (a volte anche trash). Sia chiaro: non c’è niente di male nello spettacolo, abbiamo tutti bisogno di divertirci. Ridere o appassionarsi alla fiction è salutare per corpo e mente ed è un’attività nobile, amata da chiunque sia dotato di intelligenza e sensibilità.
Il problema è quando si abusa, ripeto, del desiderio di conoscenza delle persone e della vulnerabilità dello spettatore medio (emotiva, culturale..) per fare profitto. Questo, da un lato, per motivi etici, dall’altro per ragioni politiche. Infatti, la materia di scarto di questa particolare industria è “rifiuto tossico” per la democrazia. Il cittadino che non ha tempo e cultura sufficienti per informarsi sul tema, esce da quelle due ore di show convinto di essersi informato. La realtà è che, per tenerlo incollato, gli sono state somministrate voluminose dosi di disinformazione o manipolazione emotiva.
Ci si faccia caso: in simili contenitori la retorica regna sovrana, tanto quanto gli espedienti da palcoscenico. Non ci sono i tempi per sviluppare alcun ragionamento, la moderazione è fittizia, c’è quasi sempre forte complicità con i provocatori.
Il video che ho visto ieri, ad esempio, era una lunga ed articolata provocazione che, come detto, non rendeva giustizia né ai vegani né alle ragioni di chi opta per un regime alimentare “classico” (come il sottoscritto). Ma questo non è un caso, anzi è esattamente l’obiettivo di questi show: polarizzare.
La posta in gioco, per produzioni e stakeholder, è dividere i cittadini in tifoserie e fomentarne le contrapposizioni. Infatti, le tifoserie sono molto più influenzabili, a fini commerciali e politici, degli individui pensanti. Quello che, invece, servirebbe alla democrazia ed al Paese, sarebbe alimentare un dibattito serio volto a creare consapevolezza. Così, si favorirebbe la spontanea prevalenza tra i cittadini (elettori, lettori, consumatori) di posizioni ragionate e foriere di un reale progresso, anche etico, della comunità.
Meglio pensarci, a questo tema, perché questo modo di operare sta boicottando la democrazia non meno di fake news e chatbot. Polarizzare a tutti i costi per interessi di parte porta all’incomunicabilità e alla prevalenza di posizioni insostenibili. Così si finisce per indurre i politici (complici) a promettere cose irrealizzabili per macinare consenso, sfiduciando poi i cittadini alla prova pratica. Inoltre, si finisce per alimentare l’ostilità nell’opinione pubblica, gettando le basi per esplosioni di violenza.
Un gioco proficuo ma pericoloso.
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