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Rivoluzione fiscale o morte del Paese

Giurista, saggista, editorialista
Rivoluzione fiscale o morte del Paese

Nessuno deve morire di fame. Su questo siamo tutti d’accordo. Principio sacrosanto. Diritto inviolabile della persona umana. Questo Paese però ci ha abituati ad assunzioni pubbliche talvolta inutili, discutibili ed a misure assistenziali pure e semplici nonché a sprechi di ogni genere. Questo significa spesa pubblica e, per l’effetto, debito pubblico se il sistema economico sul quale si basa il tutto non è virtuoso (cioè non riesce ad auto ripagarsi in chiave di equilibrio).

Ora, sappiamo altrettanto tutti (o quanto meno si presume nell’epoca post medievale) che il Paese non ha più titolarità di emissione della moneta (non della stampa attenzione) da quando ha aderito al sistema bancario europeo. La traduzione plastica è che il potere vero e proprio, in termini di politica economica e fiscale, si indirizza quantomeno su due fronti: come spendo per generare valore in accrescimento (infrastrutture esempio classico) e come ritiro dal sistema interno i titoli al portatore in eccesso. Sul “come spendo” il problema è atavico:

  • sia riguardo alla sproporzione tra quanto effettivamente il Paese spende per cose utili e funzionali;
  • sia riguardo a quali risorse umane davvero sono necessarie al tempo della tecnologia (in verità il carrozzone fonda le radici nella prima Repubblica ma con incidenza diversa rispetto alla sopportabilità complessiva del sistema-Paese).

Sul “come ritiro i titoli al portatore” c’è chi favorisce i titoli di Stato in mano agli italiani e chi invece preferisce aumentare le imposte, le tasse, ecc.: nel primo caso i soldi, materialmente, tornano in cassa pubblica ma la titolarità del credito è in capo al privato il quale, di tutta evidenza, ha molta più convenienza ed interesse diretto a finanziare il debito del proprio Paese; nel secondo caso alzare l’asticella del livello di imposizione/tassazione, qualora quest’ultima superi una certa soglia di sopportabilità, conduce la parte produttiva del Paese in stato di tensione sociale (il ché può generare evasione o morosità a cascata oppure ancora chiusure delle piccole e medio-imprese in primis) e, in caso più duro, in proteste, reazioni, rivoluzioni (Masaniello ce lo ricorda da secoli).

Questo cappello di premessa serve per affermare un principio: la capacità contributiva non equivale a diritto di Stato di alimentare spesa pubblica fine a sé stessa o sproporzionata o di altro genere che, peraltro, può trasformarsi in una sorta di concorrenza sleale per talune partite iva. Allora, se la spending review nessuno è capace di portarla avanti con serietà e determinazione, elettoralmente soprattutto, non aspettiamoci di contro che le piccole e medio imprese nonché gli autonomi (a cui va aggiunta l’industria seppure partendo da altri presupposti) possano mantenere il Paese negandosi costantemente serenità.

Il rischio, a catena, è che questa parte produttiva prima o poi molli. Qualcuno potrebbe dire, senza cognizione di causa, ma “se tutti pagassero le tasse, tutti pagherebbero meno”. Non diciamo eresie, cavolate insomma. È una idiozia culturale (ammesso che di cultura possa parlarsi). Le imposte e le tasse vengono previste per legge e non per questioni compensative dell’evasione o delle morosità. Sarebbe meglio l’assunto: “tutti sono tenuti a pagare le imposte e le tasse se queste rispettano la capacità contributiva reale e attuale del soggetto contribuente”.

L’evasione, infatti, è un processo psicologico che viene ingenerato nel responsabile quando il sistema-Paese non garantisce livelli funzionali e proporzionali di gettito rispetto al reddito prodotto. Chiaramente, quest’ultimo discorso ha una sua validità perimetrata solo laddove si consideri l’evasione fiscale fatta non da un soggetto malato di ingordigia monetaria, che rifiuta lo stato di diritto, ecc. o avente una conclamata inclinazione delinquenziale a sottrarre imposta all’erario, ecc.

La morosità, invece, è il risultato finale della necessità di sopravvivenza del contribuente ed è intuibile il motivo. Quanti contribuenti morosi hanno il gruzzoletto sotto il mattone? Quasi nessuno (e l’utilizzo del termine “quasi” è per un beneficio del dubbio che responsabilmente occorre mantenere). Qui viene il punto cruciale. Posto che le partite iva medio-piccole continuano a chiudere a “quantità industriali” (si consenta lo sforzo di terminologia) sia per la crisi economica che per quella pandemia e, forse in parte, per quella energetica sopraggiunta, domandiamoci come pensiamo di garantire la distribuzione (alimentare e non solo) su larga e capillare scala nazionale se i negozi, le attività di prossimità continuano ad estinguersi?

Questa gente dove va a finire? Nel calderone del reddito di cittadinanza? E c’è un’altra questione non certamente esaustiva, ma conclusiva di quest’analisi. Meno negozi ed attività di prossimità equivale a dire che ci sarà aumento dei prezzi al consumo ed una minore capacità di raggiungimento dei beni in chiave di decentramento dei consumi. Chi ha un salario o reddito fisso e ciclico subirà un rilevante shock di potere d’acquisto. Allora, invece di essere bigotti, puntiamo a recuperare le persone alla capacità contributiva perché più contribuenti, fanno pagare meno tutti se la spesa pubblica complessiva da ripagare è, grossomodo, stabile.

Rottamazione, saldo e stralcio, condono, pace fiscale, flat tax, chiamiamola come vogliamo ma per fare la rivoluzione fiscale occorre chiarire che, prima di dare addosso alle partite iva, dobbiamo facciamo un esame di coscienza. I soldi dei morosi sono rimasti tutti nell’economia reale. Anche per garantire i consumi dei garantiti stessi a cui va altrettanto garantito il potere d’acquisto (questa volta la terminologia è volutamente ripetuta). Se no il Paese crolla. Del tutto. Dalla prossima legislatura occorre permanentemente pensare e lavorare ad una riforma tributaria complessiva, organica e non pletorica, che punti a stabilizzare il Paese per almeno 5 generazioni. Salvo che si abbia il coraggio politico di dire la verità agli italiani.

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