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Statue generali

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Statue generali

Gli Stati generali più famosi della storia sono quelli che convocò Luigi XVI, nel 1789, in un disperato tentativo di disinnescare la catena di eventi che avrebbe poi condotto alla Rivoluzione francese. Le casse francesi erano alla bancarotta, idee liberali incendiavano la borghesia europea e il modello assolutista, ultima declinazione di quello feudale che aveva rappresentato lo status quo per tutto il medioevo, stava per collassare definitivamente.

Un nuovo ordine politico era ormai pronto a manifestarsi, dopo secoli di gestazione. La Rivoluzione scientifica post-rinascimentale aveva posto le basi per un radicale mutamento in campo bellico e strategico, oltre che per la rivoluzione industriale inglese e per l’esplosione su larga scala del sistema del credito. Nasceva la civiltà del capitale che sostituiva, nel suo ruolo centrale, il fondo, mentre l’etica calvinista da un lato e le idee illuministe dall’altro avevano posto le basi per un nuovo modo di percepire il rapporto tra individuo e autorità, legittimando sul piano intellettuale le nuove istanze del Terzo Stato. Il colonialismo europeo (le cui vele erano anch’esse gonfie dell’intraprendenza scientifica e militare) portava alle nuove classi vitali risorse, alternative e fiducia.

L’obsolescenza di quel sistema al tramonto era intrinseca, non certo frutto di una particolare colpa dei rappresentanti, compreso il Re. Per questo mancò l’obiettivo, creando anzi le condizioni adatte alla deflagrazione degli scontenti, che noi ricordiamo come Rivoluzione francese e celebriamo come momento fondativo della civiltà europea contemporanea. Quella civiltà europea che è dubbio se sia omogenea, ma accomuna l’occidente nel fondarsi sul riconoscimento di diritti fondamentali, libertà individuali, centralità del mercato e libertà di credo.

Curioso che, in questo momento, il decisore politico italiano scelga di citare quell’istituto di origine feudale che non rappresentò la vitalità del sistema incombente, ma l’impotenza di quello al tramonto, per identificare il suo progetto di incontro tra il Governo e quelli che oggi si dicono “stake-holders”, in un momento che vorrebbe essere di rilancio, di rinascita dopo il dramma della pandemia (punta dell’iceberg della lenta ma inesorabile agonia delle democrazie occidentali. Si, perchè è inutile negare che l’illusione di ordine e stabilità (unipolare) montato tra gli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo si sia guastata, dando origine a una crisi perdurante per lo meno dai primissimi 2000, inaugurati dal disastro del World Trade Center e dalla crisi economica di qualche anno dopo.

Comunque, una nuova rivoluzione scientifica e industriale, ma forse di più, cognitiva, ha investito l’intero globo anche oggi. L’informazione si è fatta sostanza, trasformandosi in arma, in asset e in valuta. La rivoluzione digitale esplosa nel nuovo millennio, quella degli smartphone come dei big data e dell’intelligenza artificiale, sta sovvertendo ogni equilibrio conosciuto. Nuovi attori dominano i mercati e concentrano un potere tale da rendere pura speculazione la vecchia distinzione tra potere politico ed economico, tra pubblico e privato. Parte della vita privata dei cittadini si svolge sui social network e sulle app, così che i padroni di questi, pur essendo totalmente estranei ad una dimensione istituzionale, posseggono un enorme potere di influenza sulle dinamiche politiche pubbliche.

Grazie ai dati si possono vincere guerre o accumulare capitali enormi, il tutto agendo nella componente cyber del nostro spazio. Software sofisticati analizzano i nostri comportamenti e prevedono le nostre scelte, decidono chi è idoneo per un lavoro o per l’accesso al credito e governano le borse, determinando l’andamento della finanza globale. Hardware complessi, che chiamiamo robot sostituiscono gli operai e comunicano tra loro con sensori (la cosiddetta IoT), mentre noi – magari senza saperlo – comunichiamo con software (chatbot) quando scriviamo all’assistenza online di un sito.

Questa nuova tecnologia crea nuovi poteri e ne archivia di vecchi, crea nuovi poveri e soprattutto ne aumenta il numero. Di più, squarcia il velo su alcune illusioni che hanno permesso al sistema in cui siamo cresciuti di reggersi. Quale democrazia, quale ottimo paretiano, quale libertà, in un mondo in cui è palese che chi dovrebbe detenere il potere di scelta è in realtà così facilmente manipolabile? Quale, poi, l’obiettivo di queste libertà se il risultato è quel disagio che tutti percepiamo circa il mondo che abbiamo creato?

Siamo confusi, disorientati da un tremendo paradosso. Da una parte l’impossibilità di abbandonare tutto il lusso che la civiltà del capitale e delle libertà ha portato a gran parte di noi, in questa parte del mondo (alle spese degli ultimi e del resto del globo); dall’altra la percezione ormai evidente, consacrata anche dalla pandemia, di tutto quanto di nocivo, straniante e iniquo questa stessa civiltà ha partorito. Sappiamo di essere malati, ma non vogliamo guarire. Probabilmente, anche la nobiltà del ‘700 provava qualcosa di simile. Questo, in qualche modo, è di conforto, dal momento che nulla è “finito” e noi siamo qui a parlare, mentre nel mondo esiste sì tanto orrore (citando Kurtz) ma anche tanta bellezza.

Mentre scrivo, una buona fetta di coloro che non muoiono di fame (alle periferie delle nostre città così come nel terzo mondo) è impegnata a soffocare il disagio rimpinzandosi di sushi e alcoolici per poi annegare i sensi di colpa in palestra e sfogarsi su Tinder, nel ciclico rito consumistico che avvolge tutto: il cibo, il benessere, l’apparenza, il sesso. Altri, che si percepiscono politicamente impegnati, sono assorbiti da campagne di lotta politica che si riducono nell’imbrattare di vernice rossa la memoria storica del Paese, sentendosi eroi.

Su questo, una parentesi: quale epica esiste nell’imbrattare una statua di vernice? Quale lotta? Credo di ricordare una puntata dei Simpson in cui Bart faceva qualcosa di simile. Un decenne irrequieto imbratta una statua, non dei militanti politici. Malcolm X, per stare in tema di attualità, parlerebbe di “negri da cortile” (si prega di leggersi la storia e gli scritti di Malcolm X, o almeno “googlare”, prima di gridare allo scandalo per questa frase). La lotta, che non deve essere per forza violenta, è però fatta di alterità profonda e di narrativa, di gloria e sacrificio. Non di gesti isterici e profondamente ignoranti.

Inutile piangere davanti alle immagini dei Talebani che fanno saltare i Buddha o dell’Isis che devasta i musei, se poi la lotta politica di casa nostra ispira gesti sterili e piatti come quello di cui si parla. Si tratta di attivisti politici o di suocere frustrate? La lotta politica è arte, è proposta, anche nei gesti impulsivi e meno condivisibili. Il resto è capriccio da carenza d’attenzione, che a volte può esser molto più violento (e certamente meno utile e ispirato) della vera lotta ideologica o d’interesse.

Questo è il mondo che abbiamo ritrovato (e che, per la verità, avevamo lasciato) fuori dalle nostre case. Un mondo in cui in USA una persona di colore deve ancora avere paura della Polizia n volte più degli altri cittadini. Un posto in cui sempre più giovani rinunciano a costruirsi una vita fondata su ambizioni ampie e prospettive di lungo periodo, perché costretti a prendere atto di un mondo che non offre né libertà di iniziativa, né stabilità, né una frontiera da aggredire per ricostruirsi in un “altrove” che sia davvero tale.

Un mondo in cui milioni di cinesi imparano ad essere monitorati digitalmente dal governo grazie al Social Credit System e milioni di europei e americani, nella finzione che sia una loro scelta, accettano lo stesso destino in favore di compagnie private. Un mondo in cui la scienza, invece che essere considerata come uno straordinario strumento nelle mani di menti critiche per conoscere la realtà e affrontare i problemi, viene trattata come un oracolo sul quale scaricare ogni responsabilità decisionale da classi dirigenti politiche stanche e più preoccupate di costruirsi alibi che di guidare i loro Paesi.

Lasciamo perdere gli Stati generali, allora. Sarebbe bene lavorare per recuperare piglio e fantasia, creatività, tempo e spazio per coltivarla, in vista di qualcosa che si prospetta come un nuovo radicale cambio di paradigmi, che vorremmo tutti non dovesse passare per gli orrori che abbiamo conosciuto in passato e che si spera non debba ereditare dal nostro mondo le disuguaglianze che noi, per nostra scelta, abbiamo omesso di risolvere davvero, pulendoci la coscienza in mille modi o, semplicemente, dimenticandocene.

La verità, diceva l’Agente Mulder di X-Files, è la fuori, ispirando migliaia di piccoli complottisti che anni dopo avrebbero scelto di abdicare alla fatica di cercarla attraverso lo studio e il metodo, per abbandonarsi al dolce oblio di mini credenze simil-religiose tra cui diete miracolose, alieni mutaforma, svariate forme planetarie e altre amenità. Altra forma di consumismo.

La bellezza, invece, è bene dirlo, è la fuori, ma anche questa deve essere ricercata con sacrificio, coltivata con cura e pazienza, consacrata con presenza d’animo. Altrimenti non facciamo altro che “passare di qua”, lasciando nulla.

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