Yahya ha tredici anni quando, con la sorella maggiore, parte dal Burkina Faso, attraverso il Niger e il deserto, per raggiungere la Libia: un viaggio terribile, durato oltre un mese. Durante il tragitto, i due sono derubati e picchiati da un gruppo di «uomini armati» che violentano più volte la sorella, portandola via. Da allora, Yahya non ha più sue notizie. Una volta giunto in Libia, il ragazzino viene fermato e incarcerato per un anno, quindi, riesce a fuggire a Malta dove la polizia lo porta in «un grande campo» in cui sarà costantemente picchiato per mesi. Quando riesce ad allontanarsi, fugge in Italia, dove arriva sano e salvo. Agli operatori che lo prendono in carico, il ragazzo riferisce di sentirsi «oppresso» da emozioni e paure contrastanti che, secondo i terapeuti, derivano dalla convinzione negativa secondo cui la sua vita sia “finita” in quel deserto e, allo stesso tempo, dalla cognizione positiva di “essere sopravvissuto”. Yahya soffre di disturbo post-traumatico da stress (DPTS).
Tassere viene dal Mali. Quando ha solo 11 anni, il padre muore in un incidente e il ragazzo viene affidato allo zio paterno che abuserà di lui per tre anni, ogni giorno. Fino a quando il ragazzo non denuncia tutto: lo zio viene arrestato e Tassere, rimasto ormai solo, va dallo zio materno in Costa d’Avorio, «l’unica figura buona» della sua vita, lo descriverà poi.
Purtroppo i due sono costretti quasi subito a fuggire in Libia da dove però – esplosa la guerra civile – intraprendono il viaggio verso Lampedusa, su due barconi diversi: ma quello dello zio sembrerebbe non essere mai arrivato a destinazione e da allora non ha più sue notizie.
Anche Tassere è affetto da disturbo post-traumatico da stress: al terapeuta dice di sentirsi stretto tra la convinzione di non “vedere una soluzione” e l’idea di potersi “salvare da solo”. Ma anche a distanza di tempo, il ragazzo continua a provare «terrore, nel cuore».
Sia Yahya che Tassere sono sottoposti all’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) la terapia di elezione per trattare il disturbo post-traumatico secondo le linee guida internazionali (ci sono anche la NET – Terapia dell’esposizione narrativa – e quella dell’esposizione prolungata). “Per un tipo di utenza come i migranti, sopravvissuti a traumi specifici e dunque affetti da DPTS complex”, spiega Marta Lepore, psicoterapeuta supervisore di EMDR Europe, “servirebbero professionisti psicologi con una formazione in Psicotraumatologia. Ma spesso le organizzazioni utilizzano psicologi volontari, perché lavorano in condizioni difficili e dunque si attrezzano come possono”.
Yahya e Tassere oggi stanno meglio. Il primo ha ottenuto lo status di rifugiato politico: «Sono un sopravvissuto, perché la mia vita non è finita in quel deserto», dice alla fine.
Tassere lavora in una ditta di pulizie: continua a fare gli esercizi di rilassamento e respirazione e li ha insegnati anche ai suoi compagni di stanza.
Il paradosso è che entrambi costituiscono un’eccezione fortunata: solo una parte dei migranti che arrivano qui (non ci sono statistiche attendibili), riescono ad accedere a trattamenti specifici e ad affrontare i problemi di salute mentale che patiscono a causa dei traumi sofferti. I tempi della cura, purtroppo, non coincidono con quelli – precari e mutevoli – disposti per decreto.
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