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Carnevale Maffè lancia la new economy italiana: “Siamo i migliori in Europa, i più veloci e creativi. Non lo si dice mai, smettiamola di piangerci addosso”
Dal governo 4 miliardi per gli investimenti industriali, ma l’economista della Bocconi preferisce capitali privati e incentivi nel private equity.
L’Italia cresce o no? E in che direzione sta andando? Lo abbiamo chiesto a Carlo Alberto Carnevale Maffè, economista, professore di strategia alla SDA Bocconi, amministratore indipendente, advisor strategico noto per la capacità visionaria su innovazione digitale e finanza, collaborando con importanti istituzioni accademiche tra cui la Columbia University di New York.
Professor Carnevale Maffè, ci aiuta a fotografare lo scenario macro dell’economia italiana? Come sta andando davvero e come potrebbe andare in futuro?
«Io lo chiamo Never Made Before in Italy. Le cose che crescono sono tutte quelle che l’Italia non ha mai fatto: farmaceutica, biotecnologie, intelligenza artificiale, quantum computing, aerospazio. Tutto ciò che supera la vecchia triade furniture, fashion and food. E nel food cresce solo l’alta gamma, il resto è fermo. Bisogna essere chiari: chi continua a celebrare il passato non ha capito niente».
Che cosa intende esattamente per Never Made Before in Italy?
«Sono aziende italiane che colgono i segnali di crescita del mercato e fanno cose nuove. Nel primo semestre la farmaceutica ha segnato +34,8% di export, mentre il fashion è a –5%. Il mercato sta cambiando radicalmente e l’Italia può stare nel futuro solo reinventandosi, non aggrappandosi alle tradizioni».
Sta dicendo che il concetto tradizionale di “Made in Italy” è superato?
«Sì. L’Italia è il Paese con la più alta distribuzione di trade specialties al mondo: facciamo mille cose diverse. Ridurre tutto a tre comparti è un errore. È un portafoglio amplio e distribuito, che i cinesi ci stanno copiando da vent’anni: hanno replicato 65 categorie produttive. Se restiamo sul tradizionale, perdiamo. Dobbiamo cambiare portafoglio. E lo stiamo facendo, ma la politica non se n’è accorta».
In che senso la politica non capisce?
«L’economia italiana che cresce è l’antitesi del nazionalismo. Sono le imprese più legate ai trend globali e ai flussi internazionali di investimento. Crescono perché accendono fuochi futuri, non perché celebrano il passato. Gli italiani più svegli cavalcano l’onda, come ha fatto 21 Capital quotandosi al Nasdaq. Il primo azionista è italiano: un segnale chiaro».
Questa nuova Italia innovativa è fatta più da startupper o da capitalismo familiare reinventato?
«Da entrambi. Non c’è una segmentazione netta. Se parli di tecnologie radicali, certo, spesso sono start-up. Ma se parli di mid-tech o di riposizionamento industriale, può essere una pmi familiare. Penso a Nutrafarma: piccola azienda diventata media grazie all’e-commerce e alla profilazione digitale dei clienti. Tra cinque anni può essere una big pharma. Tradizionale? Sì. Innovativa? Molto».
Lei cita spesso casi di robotica, laser industriali, aerospazio. L’Italia è davvero così avanti?
«Altroché. Sto portando al Nasdaq un’azienda italiana che produce laser industriali e militari. Il ventaglio tecnologico è vastissimo, ma sottovalutato perché viviamo ancorati alla memoria esasperata di tre specialità tradizionali. Che ormai sono driver di decrescita, non di crescita».
Lei parla anche di un rischio “da nicchia all’ossario”. Che cosa significa?
«Le nostre eccellenze tradizionali sono passate dal mercato di massa alla nicchia. E dalla nicchia all’ossario. È brutale, lo so, ma rende l’idea: quando ti restringi troppo, finisci nell’urna cineraria del mercato. L’alternativa è reinventarsi, non celebrarsi».
Esiste un’Italia migliore che inventa, brevetta, sviluppa?
«Sì, ma attenzione: l’Italia non fa ricerca di base. I nostri ricercatori sono bravissimi, tra i migliori al mondo per pubblicazioni. Ma l’impresa italiana non fa innovazione radicale. Dove siamo bravi davvero? A prendere tecnologie già esistenti e moltiplicarne le applicazioni. Non inventiamo il laser, ma lo usiamo per l’estetica, per la chirurgia, per abbattere droni militari. Sto seguendo in questi giorni la messa in quotazione di una azienda innovativa italiana che fa laser: andrà al Nasdaq di Wall Street».
Eppure, la narrazione dominante racconta ancora un’Italia che arranca. E che vive di turismo e tradizione. Perché è così difficile cambiarla?
«Perché è una narrazione comoda e falsa. Il turismo ha un valore aggiunto per addetto pari a un sesto della farmaceutica: 24 mila euro contro 123 mila. E poi c’è la leggenda del “piccolo è bello”. L’AI non è per grandi aziende: anzi, più sei piccolo, più sei veloce ad adottarla. Conta la velocità, non la dimensione. È il paradosso di Heisenberg: tutti guardano la posizione, io guardo la velocità».
Che cosa dovrebbe fare oggi la politica per sostenere davvero la crescita?
«Liberare i capitali privati invece di competere con essi. La politica chiede soldi per il debito pubblico, drenando risorse. Bisogna spostare capitali dall’immobiliare all’equity, dai bond alle azioni, creare PIR per l’innovazione. L’Italia ha troppo credito bancario e troppo poco capitale di rischio. Servono venture capital, private equity, strumenti che liberino risparmio privato e lo mettano a finanziare droni, satelliti, tecnologie. Non possiamo fare Google, ma possiamo fare tutto ciò che nasce attorno a Google».
Questo sogno di crescita è compatibile con l’inverno demografico italiano?
«Sì, perché il modello deve cambiare: manless entrepreneurship. Insegno a Losanna a fare impresa usando agenti software e automazione. Se manca capitale umano, devi sostituirlo con capitale di conoscenza e tecnologia. Per vendere prodotti non servono più persone, serve reddito nei mercati globali. L’Italia è in inverno demografico, il mondo no. In cinque anni l’India aggiunge 113 milioni di lavoratori, la Cina ne perde quaranta. Devi alzare lo sguardo: il mercato è il mondo».
Quindi il futuro dell’Italia passa dall’innovazione e dall’apertura globale?
«Esattamente. Chi pensa all’Italia come mercato non ha capito nulla. Il mercato interno cresce, certo, ma lentamente. Il mondo ha fame. E noi abbiamo talento, velocità e capacità applicativa per servirlo. Basta smettere di guardarci allo specchio e iniziare a guardare avanti».
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