Letteratura italiana da riscoprire
Chi è Camillo Sbarbaro, un grande poeta intimista oggi dimenticato
La letteratura italiana del ‘900, un tantino screditata – ci sentiamo sempre un po’ in ritardo: Svevo è “quasi” Musil, Gadda è “quasi” Joyce… – , si rivela invece ricca di tesori inesplorati. Prendiamo Camillo Sbarbaro, di cui è ora uscito il Meridiano (a cura di Giampiero Costa), noto quasi solo a un pubblico di specialisti e uno dei massimi poeti del ‘900. Nato a Santa Margherita Ligure nel 1888 e morto a Spotorno (là ritiratosi con la sorella) nel 1967, dopo una vita povera di avvenimenti e di qualsiasi colore, a parte la Grande Guerra e le frequenti visite nelle case di piacere di Genova: dopo aver insegnato a scuola diventò uno studioso di licheni (“quel che più in essi mi commuove è la prepotenza di vita. In quanti si contendono il minimo spazio!”).
La sua prima vera raccolta di poesie – Pianissimo (1914, dopo l’esordio giovanile con Resine) – ha una ispirazione esistenzialista ante litteram: i temi della disperazione, dell’angoscia della finitudine, della incomunicabilità, della metropoli indifferente (“una città di pietra”…direttamente da Baudelaire), vi sono trattati con una leggerezza miracolosa: qualsiasi argomento tocchi gli mette la sordina, sia che si tratti del suo famoso endecasillabo “umiliato” (per Caproni: “in ciabatte”) e sia che si tratti di una delle sue prose brevi, insieme sobrie e dal lessico impreziosito (Trucioli, nel 1920, o Liquidazione, nel 1928). Abbassa il sublime e il solenne, ma lo fa senza spavalderia, senza la polemica espressionista, senza l’ironia di Gozzano. È davvero il nostro anti-D’Annunzio (in quanto tale sottolinea il provincialismo del Vate), capace di mescolare aulico e profano, poesia e prosa, nichilismo e gioiosa adesione all’immanenza, il gelo in fondo all’anima e un misterioso amore per la vita (“per l’odio che portiamo ognuno al noi / del giorno prima, per l’indifferenza di tutto ai nostri sogni più divini/…/per la felicità grande di piangere / per la tristezza eterna dell’Amore, / pel non sapere e l’infinito bujo…/ Per tutto questo amaro t’amo, Vita”). Poeta fondamentale per il successivo Montale (e da lui venerato) – si pensi all’ “atonia vitale e alla pietrificazione interiore”(Mengaldo) – e poi per Giudici, Pasolini, e fino ai nostri contemporanei Pusterla e Fiori.
In uno dei componimenti di Pianissimo incontra per strada una varietà di tipi umani – fronti calve di vecchi, inconsapevoli occhi di bimbi, facce volgari stupide beate, facce ambigue di preti…. – così commentando: “E conosco l’inganno pel quale vivono, / il dolore che mise quella piega / sul loro labbro….” E ancora “Ché ciascuno di loro porta secon / la condanna d’esistere: ma vanno / dimentichi di ciò e di tutto: ognuno occupato dall’attimo che passa, distratto dal suo vizio prediletto . / Provo un disagio simile a chi veda / inseguire farfalle lungo l’orlo / d’un precipizio….”. Già, tutti noi inseguiamo farfalle ai bordi di un precipizio, distraendoci come possiamo. Struggente è il ricordo dell’amatissimo padre (lui era orfano di madre a 5 anni), che inseguiva minacciando la sorella, ma raggiuntala che strillava forte l’attira al petto e la carezza “come per difenderla / da quel cattivo ch’era il tu di prima”. Poeta dell’umile, del piccolo, dell’anonimo. Così descrive la propria produzione: “Bolle di sapone, Sottovoce, Trucioli, Rimanenze, Fuochi fatui, Scampoli Briciole…. Mi denigro o più umile è l’atteggiamento, maggiore è la superbia?”. A proposito di poesia non si dovrebbe parlare tanto di “musicalità” quanto di “musica”, tanto è dimessa, anti-melodica, disadorna quella che scandisce i versi di Sbarbato (pure intessuti di una memoria fonico-ritmica densissima, da Petrarca a Leopardi e a Pascoli), da Pianissimo a Rimanenze (1955) dove si rivela la sua vocazione di paesaggista e di asciutto impressionista, con la scoperta di un amore tardivo (per Dina). Ha trascorso la vita a riscrivere, correggere e rielaborare le prime raccolte.
In Trucioli ma anche in Scampoli (1960) troviamo tipologie diverse di scrittura prosastica: ritratti di personaggi, descrizioni cittadine, meditazioni filosofiche, bilanci impietosi, cupe iconografie infernali, un montaggio di materiali eterogenei, come nota Enrico Testa nella rigorosa, poetica introduzione (“L’ombrello di Sbarbaro”): “per concentrazione stilistica, uso non convenzionale dell’a capo, risorse foniche, misure ritmiche” si tratta praticamente “delle liriche in verso libero”: “ma, ormai, se qualcuno invidio, è l’albero. Freschezza e innocenza dell’albero! Cresce a suo modo. Schietto, sereno… più che d’uomini, ho in cuore fisionomie d’alberi”. Poi, come ritratto di paese: “Camogli m’apparì una notte paesaggio d’apocalisse. Le case, altissime, erano quinte rizzate per spaventare. Sulla piazza, barconi tirati in secco parevano pronti al salvataggio della popolazione nell’imminenza d’una mostruosa marea”(Scampoli). Ma non trascuriamo del tutto l’umorismo: “Sulla sua tomba basterà il nome: Ben-ito”.
Concludo citando alcuni brani da Fuochi fatui, dove Sbarbaro si mostra insuperabile nell’arte sottile dell’aforisma. Sulla sua poetica: “Una cosa è quando è detta: è la parola che dà consistenza (e durata) al mondo”. O una riflessione inconsapevolmente “spinoziana”: “Non è il dolore (come vogliono), è la gioia che fa buoni, anche un’ombra di gioia. Non punge più quando è in fiore l’ortica”. O un autoritratto letterario ed esistenziale: “Basta abbisogni per esprimersi d’un tono più alto, di un gesto, perché il sentimento più schietto si inquini di enfasi; da vergognarsene come di una simulazione”. Infine forse il più bello, e – in tempi elettorali anche quello più impoliticamente “politico” – : “È uno qualunque; ma al suo primo passo una madre gioì, una donna gli tremò fra le braccia, un figlio lo piangerà. Nessuno può avere di più”. Ecco, questa verità sull’esistenza – consapevole del suo limite “prezioso” – poteva scriverla solo un (grande) poeta. Non conosco leader politici che potrebbero farla propria. La silenziosa, pervasiva tirannia della nostra epoca, che censura perfino interrogativi elementari sull’esistenza, vieterebbe di enunciarla. Chi oggi volesse dirla sarebbe infatti considerato uno sfigato e tacciato di pauperismo.
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