Chicco & Claudio
Come si faceva carriera nel Partito Comunista: da giovani militanti a rivoluzionari di professione
7 – Era nel Partito che si contava e si prendevano le decisioni importanti. Ma il vento stava cambiando e poi sappiamo come sono andate le cose
Caro Claudio,
come si faceva carriera nel PCI? Un giorno all’università statale di Milano parlavo con un compagno di studi, Renato Strada, che studiava filosofia come me, e gli chiesi cosa pensasse di fare dopo gli studi. La sua risposta fu scioccante: “il rivoluzionario di professione”. Renato, studente brillante, divenne così segretario della Federazione di Crema, e ci ritrovammo in Parlamento alla Camera dei Deputati nel 1987, eletti entrambi, naturalmente con il PCI. Io mai avrei pensato ad una scelta di quel tipo. Pensavo che sarei diventato un tranquillo insegnante di liceo, cosa che poi avvenne per un breve periodo, e avrei al massimo continuato la mia militanza.
Nel 1976, il PCI fece il suo migliore risultato elettorale con il 34,4% dei voti. Ma la DC arrivò al 38,7%, nonostante la batosta presa due anni prima al Referendum sul divorzio che la vide praticamente sola, alleata unicamente con il MSI, nel contrastare un’opinione pubblica ormai avviata verso il riconoscimento di diritti civili fondamentali. Cosa che mi è tornata in mente per gli inutili e stupidi trionfalismi espressi dopo i Referendum promossi da Landini e Co., clamorosamente persi per altro, ma esaltati per il numero di voti presi. La DC perse il Referendum, ma governò per altri 20 anni. Comunque nel ’76 io torno dal servizio militare, soldato semplice, alla prova per diventare ufficiale fui respinto chiaramente perché iscritto al PCI, ma mi vendicai promuovendo insieme ad un ufficiale simpatizzante di Lotta Continua uno sciopero che paralizzò la caserma per due giorni. Dopodiché mi presi un cazziatone da un funzionario della Federazione di Torino mandato a redarguirmi, perché l’esercito era un bene nazionale al quale occorreva mostrarsi leali. Vabbè, ingoiai poco convinto. Finito il mio dovere verso la Patria, i compagni della sezione Carlo Marx di Milano mi eleggono segretario. E a quel punto cominciai a frequentare i piani non dico alti, ma almeno i mezzanini sì.
Mi fecero per esempio intervenire al Congresso della federazione secondo tutte le ritualità del caso: tre uomini, una donna, un operaio, una dirigente femminile, uno studente, un/una sindacalista, un paio di intellettuali, un dirigente d’azienda (rara avis), un/una impiegato/a, un cattolico e un esponente della comunità ebraica, naturalmente un paio di partigiani, meglio se uno maschio e l’altra femmina, un genitore democratico e anche un segretario di sezione. Quando toccò a me, naturalmente mi guardai bene dal parlare a braccio, sarebbe stato un peccato d’orgoglio inammissibile. Scrissi tutto il mio intervento che scolasticamente si dipanò fra citazioni marxiane – dopotutto ero laureato in filosofia con una tesi sul barbuto padre del movimento comunista – e qualche attacco all’estremismo sinistrorso, come era giusto attendersi da un militante che aveva scelto di stare dalla parte giusta, nonostante la giovane età.
Bisogna dire che il PCI di quegli anni creava un sacco di opportunità per chi voleva darsi da fare. La crescita elettorale ne aumentava le responsabilità e c’era bisogno di nuove forze. Così venni notato dal dirigente dell’ARCI di Milano e abbandonai la scuola per diventarne funzionario. E fui anche “attenzionato” da Marco Fumagalli, segretario della FGCI milanese, fino ad entrare nella segreteria provinciale dell’organizzazione giovanile, e poi spedito a Roma alla FGCI nazionale – tu credo te ne eri appena andato – per preparare la successione a D’Alema con il milanese Fumagalli. D’Alema mi ha recentemente raccontato che la scelta del sottoscritto fu attentamente analizzata dalla Commissione Centrale di Controllo, in sostanza i probiviri che vigilavano sulla moralità e la correttezza dei dirigenti. Chissà allora con quali criteri. Comunque bene o male passai l’esame. Si fece il congresso “democratico” e ovviamente Fumagalli venne eletto. Ma mi spiegò che, a causa di un eccesso di milanesi, non sarei entrato in Segreteria.
Fu la mia fortuna, perché me ne tornai all’ARCI, quella nazionale, che il Presidente Enrico Menduni stava completamente trasformando. E mi detti da fare per costruire quella che allora si chiamò la “Lega per l’Ambiente”, poi sinteticamente “Legambiente”. All’università avevo studiato la questione: Barry Commoner, fondatore del partito verde americano, con “Il cerchio da chiudere”, il Club di Roma con “I limiti allo sviluppo” e altre cosucce, e mi ero appassionato. La questione mi interessava. Fu la scelta più felice che potessi fare. Dell’ambiente allora non se ne curava nessuno, era un tema minore, e l’ARCI veniva considerata un po’ una seconda scelta, una delle tante organizzazioni collaterali al PCI e al PSI. Era nel Partito che si contava e si prendevano le decisioni importanti. Ma il vento stava cambiando e poi sappiamo come sono andate le cose. E io mi sono trovato sempre più nell’occhio del ciclone.
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Caro Chicco,
a questo punto metto i piedi nel piatto e ti racconto i passaggi salienti della mia carriera politica nel PCI, magari portandomi un po’ più avanti nella nostra storia, ma è soprattutto per dirti degli imprevisti, delle coincidenze, quando non delle casualità che l’hanno segnata. Nel partito in cui militammo entrambi, io non fui mai un predestinato o un astro nascente. Abbiamo già detto che non ero buono a fare comizi, leggevo per sommi capi i testi sacri, meno che mai compulsavo leggi, i miei discorsi erano astratti e fumosi (“Velardi, non fare il sociologo!” mi diceva Chiaromonte), tuttalpiù avevo buone doti organizzative, un certo fiuto per le persone, e con il tempo – questo sì – mi si è affinata una certa furbizia. Ma già dalla prima promozione, risultò chiaro che ero una specie di scarto, un numero 2 che solo per caso diventava 1.
Era il 1975: il mio capo Umberto Minopoli, cui sarei stato legato per la vita, doveva lasciare la FGCI di Napoli per approdare nella segreteria nazionale, e il posto di segretario ce lo contendevamo io e Pippo Schiano. Vinse Pippo, più simpatico e piacione secondo il partito, che naturalmente decideva per noi fanciulli, ma in tempo reale mi fu proposta una straordinaria avventura: la FGCI nazionale mi chiese di andare a fare il commissario provinciale a Reggio Calabria, dove insospettiva il fatto che dichiarassero 6mila tessere. Mi catapultai laggiù, scoprendo che di iscritti ce n’erano sì e no 600, ma trascorrendo un anno fantastico, fatto di cene di pesce e di spinelli notturni. Quando – raramente – si lavorava, andavo in cerca di chi potesse sostituirmi, perché la città era carina, ma certo non ambivo ad ammirare a vita “il chilometro più bello del mondo”, come pare che D’Annunzio avesse definito il lungomare di Reggio. Trovai presto quello giusto per avvicendarmi, si chiamava Marco Minniti. Il padre, militare inflessibile, non voleva che facesse politica, ma il ragazzo prometteva più che bene.
Così nacque tra noi un’amicizia che ormai dura da cinquanta anni, lo feci segretario e riuscii a ripartire, destinazione Roma, dove Umberto aveva deciso di prendermi come suo vice, ad occuparmi di Mezzogiorno e agricoltura (giuro, non distinguevo una carota da una quercia…), insomma di cose decisamente secondarie in un’organizzazione fatta di studenti sedicenti intellettuali. Finita per anagrafe la poco scintillante esperienza nella FGCI, tornai a Napoli da “rivoluzionario di professione” nel partito, nominato responsabile di una zona dell’entroterra metropolitano che comprendeva Afragola, terra di nascita di Bassolino, il quale da segretario regionale stava regolando i conti con la componente migliorista, di cui ero parte. Dovevo tenermi in equilibrio per non cappottarmi, e un po’ di opportunismo “de sinistra” mi consentì di sopravvivere al pogrom che nel congresso del 1983 falcidiò la destra del partito. Quindi mi ritrovai nella segreteria provinciale, non per meriti miei, ma solo perché gli altri miglioristi erano stati violentemente cacciati dagli organismi dirigenti. In segreteria rompevo le scatole perché non si riuscivano mai a discutere i bilanci della Federazione, fino a quando un dirigente nazionale mi telefonò, dicendomi “scusa Claudio, c’è un problema in Basilicata, vuoi andare per un po’ a fare il segretario?”.
Capii l’antifona e, mentre a Napoli scoppiava la Tangentopoli locale, mi trasferii per qualche anno a Potenza, dove D’Alema mi insediò come segretario regionale, tra i mugugni dei dirigenti locali. Furono anni belli e formativi quelli lucani, ma certo non potevo rimanerci a vita, così il mio dante causa mi portò a Roma, dove c’era da preparare il congresso del ‘91, quello della svolta, e dove detti il meglio di me come feroce organizzatore della componente dalemiana, riempiendo il Comitato Centrale di nostri fedelissimi (lavoro che si sarebbe rivelato preziosissimo nel 1994, nella battaglia all’ultimo sangue contro Veltroni). Anche se, quando chiesi di entrare nella direzione del partito in sua rappresentanza, D’Alema mi disse “non posso, devo far entrare Violante”. E il suo onesto rifiuto mi convinse a mettere lo stop all’ormai frustrante percorso politico. A quel punto avrei voluto diventare giornalista, ma Macaluso, all’epoca direttore dell’Unità, non volle saperne di prendere alla sua corte quello che considerava un traditore del migliorismo. Così, tra il 1992 e il 1993, rimasi in sostanza senza lavoro. Altro che “carriera”…
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