Era giovanissimo Umberto quando l’ho conosciuto. Nella Fgci, alla fine degli anni Sessanta. Veniva da Pozzuoli, antica città operaia, un circolo della Federazione giovanile comunista ricco di giovani compagni politicamente forti e combattivi: da Rino Marzano ad Antonio Russo, da Doriano a Camillo Sebastiano. Umberto alle riunioni era sempre preparato, pronto a intervenire, portava con sé un libro e fogli di carta con gli appunti, leggeva Rinascita e riempiva le pagine della rivista con infinite sottolineature degli articoli. Incredibile a dirsi… Umberto era un po’ di sinistra allora. Un po’, solo un po’, del resto, in quel tempo lontano, lo fummo tutti… almeno un po’.

La sua formazione umana e culturale avvenne nella Fgci degli anni Settanta, prima a Napoli poi a Roma: leggendo, studiando, scoprendo testi, autori… Interrogandosi sulle inquietudini, le ansie, i tormenti di quei giovani, protagonisti di quella “seconda società” descritta nel fatidico 1977 dallo storico della letteratura italiana Alberto Asor Rosa, giovani che irrisero la politica di austerità e attaccarono frontalmente il governo di solidarietà nazionale e il sostegno offertogli dal Pci di Enrico Berlinguer. Tanti di quei giovani con lui nella Federazione giovanile, alcuni sono oggi in questa sala per ricordarlo e salutarlo, scelsero di dedicare la loro vita alla politica, erano persuasi di cambiare il mondo e la vita, convinti che il comunismo così come lo immaginavano avrebbe reso gli uomini più liberi, pensavano che fosse possibile farcela, di avere dalla loro parte tante ragioni, la storia stessa.

Erano giovani e avevano una grande passione politica. Come Umberto che, dopo aver lavorato negli anni con D’Alema, Napolitano, Reichlin, Bersani fu protagonista della discussione e della battaglia politica intorno alla svolta nel 1989: la fine del comunismo, la conclusione della storia del Pci, la nascita del Pds. Scrivemmo allora due cose che in fondo hanno retto alla usura del tempo. Su impulso di Umberto intitolammo un nostro scritto: “Perché non possiamo non dirci socialdemocratici” parafrasando il titolo del famoso saggio di Benedetto Croce “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Lo inviammo a Norberto Bobbio e ad Antonio Giolitti che ci risposero con due belle lettere di cui Umberto andava fiero. E poi il lavoro su Eduard Bernstein, il socialista più denigrato nella storia del movimento operaio. Fu Umberto a volere come titolo del libro “Il movimento è tutto”, con l’argomento che così saremmo passati per sostenitori di una tesi di sinistra…e avremmo spinto tanti a leggere Bernstein…

Umberto non fu un dissidente di professione, aveva una vena polemica ricca di impulsi, a volte fino all’irruenza, ma il suo tentativo era affermare idee nuove, aprire dei varchi, vivere una esperienza collettiva nel partito in un modo compatibile con la libertà individuale. Lo sforzo di Umberto era far avanzare concretamente una cultura riformista, un termine, almeno allora ancora sospetto. Non mancò intorno a Umberto un clima di sospetto per le sue audaci posizioni innovative, un clima di diffidenza che gli procurò sofferenza. Umberto era tuttavia un combattente, sapeva reagire alle avversità, era consapevole del suo valore. C’era in lui una energia mentale incredibile. Decise di voltare pagina. Lavorò con successo in Finmeccanica. Si affermò in altri campi. Condusse altre battaglie.

Ma la politica restò la sua passione. Guardò con interesse al sorgere del Partito democratico. Sostenne Renzi. Se ne allontanò, non condivise la scelta di lasciare il Pd malgrado denunciasse la genericità delle posizioni, la enunciazione di buoni propositi in cui si risolveva la politica di un Pd incerto sulla strada da seguire. Umberto rifuggiva sempre da profezie di catastrofismi. Era sempre schierato dalla parte del sapere, della ragione e della razionalità. Si rivolgeva ancora alla sinistra: cosa aspetta a fare i conti con le straordinarie novità che si annunciano nel campo delle trasformazioni industriali, dell’energia, delle tecnologie? A questo il Pd dovrebbe guardare, avvertiva Umberto, ma evitava di parlarne, la sua battaglia rischiava di essere ancora una volta vana. Eppure non demordeva.

Scrisse due splendidi libri: l’uno, a conferma della sua prodigiosa capacità di lettura e apprendimento, dedicato ai misteri della fisica e della cosmologia, “Stelle intoccabili”; l’altro sul tema su cui si è battuto con tutte le sue forze, liberare da pregiudizi e grossolanità la complessa questione della energia nucleare, “Ritorno al futuro”. Quanti di noi potrebbero dire della sua generosità umana, del suo calore, del suo senso profondo dell’amicizia e della sua allegria. Era napoletano Umberto e fiero di esserlo. Ricordo una serata con Raffaele La Capria in un ristorante non lontano da piazza Grazioli dove La Capria abitava. L’occasione per Umberto di parlare con l’autore di “Ferito a morte”: il romanzo della fine della felicità a Napoli, quella felicità che sembra sempre a portata di mano e che sempre invece sfugge. La metafora di Napoli e della “Bella giornata”.

Umberto era affascinato dalla “Armonia perduta” il romanzo in cui La Capria considera Napoli la città in cui, ad un certo momento, la storia si è fermata. Ricordo la passione scintillante con cui Umberto incalzava La Capria perché tornasse sul trauma vissuto dalla storia di Napoli: con la sconfitta della rivoluzione del ‘99 a Napoli scompare la borghesia e insieme la cultura grande borghese che la legava all’Europa, Napoli diventa la città di una piccola borghesia dominata dalla paura della plebe ed esperta nell’arte del sopravvivere. Accompagnammo emozionati La Capria a casa, restammo a lungo a parlare di Napoli, dell’Italia, di Napoli come quintessenza dell’Italia.

È trascorso un anno da quando Umberto se ne è andato. Mi accompagna, quasi un dolore sordo, il pensiero della sua mancanza. Non solo né tanto la mancanza delle nostre discussioni e magari, a volte, liti, sulle aggrovigliate vicende politiche. Avverto acutamente la sua mancanza quando l’inquietudine mi assale. L’incontro con Umberto mi aiutava a intendere le ragioni delle mie ansie, ad affrontarle. Era lo stesso per lui. Nella amicizia come nell’amore si trova un rifugio: con l’amico ci si confida, si piange, si ride… insieme. Questo accadeva tra noi. Ecco perché un dolore sordo mi accompagna.