Proprio oggi, nel primo giorno del nuovo “Riformista”, saluteremo (a Roma alle 14.30, nella sala della Camera di Commercio a via dei Burrò 147) Umberto Minopoli, un riformista che se n’è andato qualche giorno fa.

Vorremmo che non ci lasciassero mai, i riformisti: sono merce rara. In particolare Umberto ce lo saremmo tenuti per sempre, perché il suo riformismo era una sfida continua, una spina nel fianco per chiunque. Era finanche fastidioso, il mio e nostro amico, perché quando qualcuno di noi finiva per accomodarsi, per prendersi qualche licenza nei sentieri della politica facile, magari stanco di stare sempre lì ad affrontare le cose con rigore e severità, lui ci ricordava che il compito di ogni riformista era invece uno e uno solo: rifuggire ogni banale propaganda, studiare i problemi, conoscerli per davvero, proporre soluzioni possibili e ambiziose, esercitare la nobile arte del compromesso senza svendere i principi.

Mestiere difficile per chiunque, senza dubbio, ma soprattutto per chi – come lui e parecchi di noi – veniva da una storia fatta di incrollabili certezze frantumate, di mitologie che ancora oggi sopravvivono nelle pieghe delle illusioni e della memoria bugiarda.

Ma Umberto il riformismo ce l’aveva dentro, fin da ragazzo: forse gli derivava dalle sue solide e popolari origini familiari, certamente dalla vocazione alla ricerca e allo studio, allenato quando molti di noi preferivano la facile scorciatoia degli slogan, mentre l’universo politico in cui viveva(mo) rifuggiva finanche la parola. Il riformismo magari lo praticava, ma guai a pronunciarlo.

Così il suo percorso roccioso e lineare, sorretto dalla speranza riformista nel fluttuare delle evanescenti stagioni politiche italiane, incrociò anni fa il neo-direttore (auguri!) del “Riformista”. I due – persone di carattere, per usare un eufemismo – si piacquero, e di Umberto ancora si ricorda un memorabile discorso in una Leopolda. Poi lui continuò a pensare che “extra ecclesiam nulla salus”, e quella sintonia, di cui ero personalmente entusiasta, sfiorì troppo presto.

Anche se, qualche giorno prima di morire, venendomi a trovare, e dicendomi che andava a Milano per un piccolo intervento, salutandomi aggiunse che gli avrebbe fatto piacere tornare a collaborare con il giornale che state ora leggendo.