Per l’amministrazione di Joe Biden, i Balcani occidentali continuano a essere un rischio per la sicurezza nazionale e per la politica estera. Lo conferma un documento pubblicato il 20 giugno con cui viene prorogata l’efficacia dei provvedimenti che parlano di emergenza per ciò che avviene in quella regione. L’atto può sembrare una semplice formalità. Eppure, tra le righe di una comunicazione presidenziale si possono comprendere alcune rilevanti dinamiche internazionali. Nel testo della Casa Bianca si legge che questa “emergenza” è provocata da “azioni di persone che minacciano la pace e gli sforzi di stabilizzazione internazionale nei Balcani occidentali” e da “atti di violenza estremista e attività ostruzionistiche” che minano la democrazia e la possibilità che la regione si sposti verso il blocco occidentale. Queste frasi confermano quello che molti osservatori indicano da diverso tempo, e cioè che la regione a ridosso dell’Adriatico resta un punto interrogativo geopolitico con cui dovere prima o poi fare i conti.

Il primo tema è il nodo dei rapporti tra Kosovo e Serbia. Le recenti tensioni nella parte settentrionale del Kosovo tra Pristina, minoranza serba e forze della Nato e l’arresto di tre poliziotti kosovari da parte della Serbia sono solo l’ultimo esempio di cosa sia quel focolaio mai veramente spento nel cuore dell’Europa. Il segnale lanciato dall’Alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell, con la convocazione d’urgenza del premier kosovaro Albin Kurti e del presidente serbo Aleksandar Vucic, è eloquente. L’Ue ha fatto capire a Belgrado e Pristina che è necessaria una de-escalation, e lo ha ribadito anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg.

Gli indizi che giungono dai due Paesi non inducono però a credere che siamo di fronte a una soluzione rapida del problema. La crisi si somma a problemi irrisolti che minano una realtà fragile e ancora molto legata a un fin troppo recente passato fatto di divisioni etniche, guerra e questioni ataviche che si uniscono a interessi contingenti.
Qualche osservatore ha lanciato da tempo l’allarme sul fatto che gli Stati Uniti stiano perdendo la “scommessa balcanica”, anche al netto dell’allargamento della Nato nell’area. Russia e Cina, le due potenze rivali di Washington, hanno saputo radicare i propri interessi nella regione sfruttandone i nodi irrisolti e soprattutto proponendo soluzioni più facili a governi che necessitavano molto spesso o di investimenti o di sostegno politico e militare.

Il legame di Pechino e Mosca con Belgrado sembra solido sotto diversi aspetti. E l’integrazione dei Balcani occidentali nell’Unione europea appare come un percorso a ostacoli, con il rischio che l’attendismo di Bruxelles generi diffidenza, e che la diffidenza, a sua volta, faccia sì che qualche governo decida di volgere lo sguardo altrove.
Cina e Russia – anche se per il Cremlino in modalità ridotta visto il trauma della guerra in Ucraina – sono già presenti e visibili. Ma non vanno dimenticate anche le mosse di potenze esterne all’Europa ma partner dell’Occidente come le monarchie del Golfo e la Turchia, con Ankara che – non certo casualmente – ha deciso in queste settimane di aumentare il proprio contingente impegnato con la Nato in Kosovo.

Mentre gli equilibri continuano a mostrarsi mutevoli in tutta l’area al di là dell’Adriatico, tra i punti interrogativi della regione va poi evidenziato il tema dei flussi migratori. La rotta balcanica, che risale la regione fino ad arrivare ai confini nordorientali italiani o che prosegue fino all’Europa centrale, è uno dei dossier più delicati della politica migratoria di Roma e di Bruxelles. L’immagine dei barconi carichi di persone disperate nel Mediterraneo colpisce l’immaginario collettivo e di conseguenza anche il dibattito politico. Ma non bisogna dimenticare che lungo la rotta orientale le organizzazioni criminali continuano a sfruttare l’arrivo di decine di migliaia di persone che cercano, come le altre, la via dell’Europa.