Nei maltrattamenti contro familiari o conviventi, determinante è il legame di correlazione che deve sussistere tra lo specifico contesto dell’azione (familiare-parafamiliare) ed il modo della sua realizzazione in un periodo di tempo, che può anche essere limitato. Pur non costituendo la convivenza presupposto del reato, l’integrazione di questo delitto richiede rapporti di stabile frequentazione e di solidarietà, che non possono ritenersi penalmente pregiudicati da episodi sporadici, espressione solo di atteggiamenti di contingente aggressività riferibili a reciproci litigi. Ne deriva che, ai fini dell’affermazione della responsabilità per maltrattamenti, fondamentale è, pertanto, distinguere gli episodi che, in quanto parti di una più ampia condotta abituale, sono idonei ad imporre un regime di vita insostenibile, da quelli, invece, che, essendo espressione di una conflittualità familiare patologica, possono anche ledere l’integrità psico-fisica di un membro della relazione, mantenendo, però, la propria autonoma rilevanza penale.

Il delitto di maltrattamenti in quanto reato abituale può essere ritenuto integrato solo nel primo caso; essendo anche a forma libera la relativa condotta incriminata richiede, inoltre, la ripetizione nel tempo di più fatti, sia commissivi che omissivi, i quali concepiti – in una visione diacronica -consistono in un’unitaria azione vessatoria tale da rendere le relazioni familiari e di convivenza mortificanti per la vittima.

La casistica giurisprudenziale indica a tal fine una variegata tipologia di atti: da quelli di violenza fisica e sessuale a forme di umiliazioni e manifestazioni di disprezzo incidenti sulla sfera morale e sull’autodeterminazione della vittima, compresa la violenza economica. Questi atti singolarmente considerati possono anche non essere punibili; acquistando rilevanza in virtù del vincolo di continuità che deve legarli. Non essendo i maltrattamenti un reato permanente, la loro realizzazione può anche essere intervallata da momenti di normalità, ma tale da infliggere alla vittima durevoli sofferenze fisiche o morali. Proprio perché non è richiesto uno stato di soggezione totale di quest’ultima, i singoli episodi avvinti dall’abitualità possono avere la loro genesi anche in paralleli comportamenti assunti dalla parte offesa. Il carattere unitario del reato impedirà, in ogni caso, di applicare l’attenuante della provocazione in quanto quello, che l’agente vorrebbe far passare come reazione emotiva verso un fatto ingiusto subito, è in realtà espressione dell’intento di sopraffazione.

In proposito, risvolto dell’abitualità è sul piano dell’elemento psicologico la necessità che le condotte siano avvinte da un dolo unitario, quale volontà di realizzare singole prevaricazioni nella consapevolezza di proseguire in una attività vessatoria, già attuata in precedenza. A differenza di quanto previsto per il reato continuato, questo consapevole perseverare in condotte lesive della dignità della persona offesa non richiede anche la sussistenza di uno specifico programma criminoso, essendo sufficiente la rappresentazione della preesistenza delle attività vessatorie al momento della reiterazione del singolo atto.

Un collante soggettivo di tal fatta va accertato con particolare attenzione, calandolo nella disamina del contesto familiare per riuscire ad operare quella distinzione, da cui abbiamo preso le mosse, ed in forza della quale la responsabilità penale per maltrattamenti non sussiste in presenza di fatti che costituiscono di per sé reato, ma non sono avvinti dal vincolo dell’abitualità in quanto costituenti la reazione o a tensioni contingenti o comunque ad un clima di vita reciprocamente intollerabile.

Di tal fatta possono essere anche le lesioni, le quali, a prescindere dalla gravità, non iscrivendosi in una più ampia e sistematica azione di sopraffazione patita dalla vittima nel rapporto con l’autore, non assumono ulteriore rilevanza penale quali atti di maltrattamenti. A questa prospettiva, nonostante il criticabile linguaggio impiegato, va ascritta la sentenza del Tribunale di Torino, da cui è ricavabile il tentativo di distinguere la conflittualità, che trasmoda in atti di aggressione isolati, dai maltrattamenti che sono, invece, la manifestazione di una relazione di asimmetria di potere e di genere, che assume rilevanza penale perché pone una delle due parti in uno stato di prostrazione e paura, incompatibile con le normali condizioni di esistenza.

Solo laddove le lesioni si verificano quali conseguenza non voluta dall’agente nella realizzazione di un’abituale condotta maltrattante, saranno, se lievi, assorbite dal delitto di maltrattamenti; se gravi sarà, invece, applicato l’aggravamento di pena fissato al comma 3. dell’art. 572 c.p., il quale, prevedendo un’ipotesi di delitto aggravato dall’evento, richiede – per essere costituzionalmente conforme al principio di colpevolezza – che si accerti che questo evento sia almeno prevedibile dal soggetto agente. Sussisterà invece, a prescindere dalla gravità della lesione, concorso formale tra le fattispecie previste dagli artt. 572 e 582 c.p. quando le lesioni risultano consumate in occasione, ma non strumentalmente ai maltrattamenti e con volontà di ledere.

Rosa Maria Vadalà

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