L'intervista
Cresce la rete dell’odio, Pierre Lévy: “Esiste un’intelligenza collettiva del male”
Intervista al filosofo franco-tunisino: “Vedo un allineamento della comunicazione russa, di quella iraniana e di quella islamica. E da qualche tempo, in modo abbastanza chiaro per coloro che sono in grado di capire, della comunicazione cinese. Un allineamento limpido. Palese. E molto preoccupante”
Un mese dopo l’inferno scatenato da Hamas contro i civili in Israele, cresce in rete il reclutamento e la radicalizzazione islamica. Aumentano i cyber terroristi, gli hacktivisti, i troll che si affannano a fare della guerra ibrida l’ultima frontiera dell’odio. Dinsinformazione e fake news, ma anche autentiche azioni di pirateria informatica per danneggiare l’avversario trovano spazio crescente in quella che doveva essere la grande promessa di internet, l’agorà mondiale del sapere e delle culture. Ne abbiamo parlato con il più noto filosofo delle dinamiche del web, il franco-tunisino Pierre Lévy, che è passato dalla Sorbona all’Università di Ottawa, in Canada. La sua opera più nota, L’Intelligenza Collettiva, è considerata il manifesto della rete.
Il mondo cerca di interpretare il genocidio del 7 ottobre. Sembra che il fondamentalismo islamico, pur essendo liberticida, tragga linfa vitale dalla rete: un paradosso. Per questo le chiedo: esiste una intelligenza collettiva del male?
«Per decenni ho studiato l’intelligenza collettiva del bene. Concetto che per me non rappresenta una intelligenza direttamente sottoposta al potere o a un campo politico o geopolitico: è Wikipedia, è il software aperto e gratuito, è l’insieme delle idee che si incontrano sui social network. Ma perfino io, che sono sempre stato un ottimista, osservando le dinamiche dei social media oggi risponderei di sì alla sua domanda».
Può farci un esempio?
«Vedo un allineamento della comunicazione russa, di quella iraniana e di quella islamica. E da qualche tempo, in modo abbastanza chiaro per coloro che sono in grado di capire, della comunicazione cinese. Un allineamento tra le potenze di quest’asse sulla comunicazione è limpido. Palese. E molto preoccupante».
Da cosa lo deduce così nettamente, professore?
«Perché vedo dei profili, degli account che ad esempio prima facevano propaganda anti-ucraina che adesso fanno propaganda anti-israeliana. Sono proprio gli stessi. Con una interazione e un supporto reciproco e con molta più coordinazione nascosta di quello che immagina la gente. Tra coloro che chiamo «Agenti genocidi» la comunicazione è realmente molto efficace. Bisogna rendersene conto».
E invece reagiamo tardi e male, perché?
«Perché non ci crediamo. Quando i russi stavano facendo i preparativi per l’invasione dell’Ucraina, e iniziavano a circolare le immagini che davano prova di spostamenti enormi di truppe e di mezzi corazzati ai confini ucraini, ci sembrava tutto talmente enorme, fuori scala, da non crederlo. Eppure era reale e sotto ai nostri occhi. Dunque anche quando non mancano le informazioni, o i documenti eloquenti come i video, li guardiamo con disincanto: c’è un problema di decodifica. Ci sono quelli che sono pronti a commettere un genocidio e quelli che non sono nemmeno pronti a rendersi conto che saranno le vittime».
Ed è quello che è accaduto anche il 7 ottobre in Israele?
«Sì, ci siamo detti che quello che stava accadendo era impensabile. Ci siamo chiesti: qual è il loro vantaggio? I russi stanno perdendo soldi e uomini, non guadagnano niente da questa guerra. E Hamas, ci siamo detti, cosa ci guadagna? Lo diciamo perché continuiamo a guardare il mondo con i nostri occhi. Con i nostri codici. E con una dose di razionalità che non è lo stesso metro con cui loro guardano alla necessità di agire».

Qual è la strategia del terrore, dunque?
«Rendere l’avversario incapace di capire quello che sta succedendo. Di destabilizzarlo nelle fondamenta. Ci portano nell’ambito dell’impensabile, come fu per l’11 settembre 2001. Siamo catapultati in un contesto in cui non capiamo bene perché agiscono così. Cerchiamo di spiegare con la razionalità quelli che sono fenomeni non razionali, almeno non secondo i nostri criteri. Lo scopo è scioccare, destabilizzare. E uccidere quanti più nemici possibile, anche se le conseguenze sono negative per loro stessi».
Non è una partita a scacchi.
«È una partita a scacchi in cui l’avversario si siede, prende la scacchiera e ce la spacca sulla testa. Noi pensavamo di batterli con qualche mossa studiata ad arte, loro vogliono solo spaccarci la testa. Non rispettano alcuna regola. La propaganda russa canta vittoria perché ha raso al suolo questo o quella città ucraino, pur sapendo che sarà difficile per loro vincere la guerra».
È la strategia del caos?
«Senza alcun dubbio. Noi pensiamo che l’avversario voglia migliorare la sua condizione esistenziale, invece no. Vuole seminare il panico, generare un terremoto anche se poi ne pagherà qualche conseguenza. E non è la prima volta, nella storia, che accade. La Germania nazista ha investito risorse molto rilevanti nella persecuzione antiebraica, nelle deportazioni verso i campi di sterminio. E al tempo stesso era impegnata su più fronti di guerra. Avrebbe avuto bisogno, razionalmente, di tutti gli uomini e tutte le risorse per vincere, ad esempio sul fronte russo. Se ne è privata perché perseguiva uno scopo irrazionale, il genocidio degli Ebrei. Che poi è oggi lo stesso identico scopo che si prefigge Hamas».
Abbiamo i mezzi per combatterli?
«Per tutta la vita ho rassicurato dicendo che con l’intelligenza collettiva è possibile vincere il male. Ho teorizzato la rete come opportunità per tutti, come un oceano di conoscenza aperto. Oggi vorrei interpretare, per una volta, il ruolo del profeta di sventura. Una enormità di persone, nella popolazione mondiale, ha oggi una visione distorta della realtà, fabbricata dalle macchine della propaganda di Russia Today e di Al Jazeera. E dagli organi di propaganda cinese, ben più malintenzionati di quel che si crede. Anche i media occidentali stanno cadendo nella trappola delle fake news».
Esiste una emancipazione del male?
«Viviamo un nuovo tempo dei genocidi. Gli stermini (dell’avversario, delle minoranze, dell’altro) sono di nuovo ammessi. La terza guerra mondiale che sembra iniziare è anche la prima guerra civile mondiale. Combattuta per metà con la forza e per metà con la rete, come dimostrano le spaccature profonde tra due elettorati contrapposti in Israele, in Europa e negli Stati Uniti».
Le guerre ibride, insomma.
«Nelle nuove guerre, ci sono due campi contrapposti sul terreno ma anche sulla rete. La guerra cognitiva divide l’opinione pubblica, destabilizza. E aggiungo che i due fronti che si combattono non sono mai il bianco e il nero. Uno è grigio chiaro e l’altro è grigio scuro».
L’Ucraina e lsraele sono due paesi sovrani, aggrediti in casa.
«Sì, assolutamente. Quello che è avvenuto in questi due paesi è talmente evidente che non si può dire diversamente. Eppure c’è chi lo fa, chi sostiene le ragioni del grigio scuro sul grigio chiaro: segno che la propaganda sta infiltrando la mente di troppe persone. Si guardi a quello che avviene negli Stati Uniti, dove una metà degli americani si comporta da stupido (e non solo i repubblicani), prima con le idee dei complotti di cui parla in rete e poi con la forza, andando ad assaltare Capitol Hill o creare un clima di terrore nelle università e vietare gli oratori conservatori. Se l’altro diventa un nemico, tutto quello che si può fare per metterlo a tacere è lecito».
C’è un problema serio di intelligenza collettiva…
«Sul piano dell’intelligenza collettiva, se gli europei non prendono coscienza di quello che sta accadendo nel mondo, siamo al letargo. C’è una guerra da un anno e mezzo nel cuore dell’Europa e l’Ue ancora non si dota di una sua politica di difesa europea comune, e nemmeno di una politica estera comune. Un ritardo catastrofico».
La rete aiuterà ad uscire da questa crisi, dalla guerra di civiltà che lei ha qui tratteggiato?
«La rete serve ai regimi genocidari così come alle democrazie. L’utopia della rete non ha fallito, anzi: è riuscita. Più di due terzi degli esseri umani hanno avuto accesso a Internet nell’arco di una generazione. Ha originato conseguenze negative, oltre alle tantissime positive. Siamo all’inizio della rivoluzione informatica, come dimostra lo sviluppo dell’IA. Alla fine credo che abbiamo, noi nelle democrazie, tutte le carte in mano per vincere la partita. Con l’intelligenza individuale di ciascuno di noi si rende più forte l’intelligenza collettiva del mondo che cambia».
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