C’è un filo, sottile ma resistente, che lega le antenne rabberciate delle radio indipendenti degli anni Settanta ai microfoni USB dei podcast contemporanei. È il filo della voce che non chiede permesso. La voce che non si accontenta di ricevere – ordini, notizie, commenti, intrattenimento – ma pretende di dire. Di partecipare. Di incidere. Anche solo di disturbare.
Negli anni in cui l’etere era affare di Stato o di capitale, un gruppo eterogeneo di giovani, militanti, anarchici dell’FM, decise che no, non bastava ascoltare. Volevano trasmettere. Nacquero così le radio indipendenti: un fenomeno che fu insieme culturale, politico, generazionale e tecnologico. Non c’erano solo le canzoni vietate dalla RAI o le voci senza dizione: c’era, soprattutto, una società in fermento che cercava linguaggi alternativi per raccontare la trasformazione in atto. Chi parlava in quelle radio voleva far parte del cambiamento, non subirlo.

Radio Alice, Radio Città Futura, Punto Radio fondata da Vasco Rossi, Radio Popolare e Radio Aut di Peppino Impastato furono tra le principali protagoniste di questo fermento. Queste stazioni, nate negli anni Settanta, furono pionieri nel panorama radiofonico italiano, portando un approccio indipendente e alternativo rispetto all’emittenza pubblica, fondando spazi di espressione libera e partecipativa che ancora oggi sono un riferimento.
Oggi ci si chiede se i podcast siano la nuova radio. La risposta è sì, ma non nel senso nostalgico o vintage del termine. I podcast, nel loro moltiplicarsi anarchico e a volte caotico, rispondono allo stesso impulso: una società che cambia – disintermediazione, frammentazione, crisi della rappresentanza – produce nuove forme di partecipazione discorsiva. E il podcast è una di queste. Non è solo un contenuto audio, ma una forma di cittadinanza espressiva. Una tribuna autogestita. Una presa di parola orizzontale, spesso artigianale, che sfugge ai meccanismi di selezione del mainstream. Come ieri la radio libera, oggi il podcast è un “qui parlo io”, non per egocentrismo ma per mancanza di alternative.

Podcast come “Da Costa a Costa” di Francesco Costa – nato da un’idea personale, sviluppato con pochi mezzi, diventato poi un punto di riferimento per la narrazione della politica americana in Italia – mostrano come anche dall’indipendenza possa germogliare autorevolezza. Oppure “Tintoria”, spazio libero e irriverente per la cultura pop e la stand-up comedy, o “Pulp podcast”, che esplora le derive mediatiche e culturali italiane con uno stile tagliente e originale. Formati diversi, ma stessa spinta: parlare da sé, senza filtro. E tanti altri ancora: Muschio Selvaggio, Non aprite quella podcast, Morgana fondato da Michela Murgia ecc.
Il punto non è la tecnologia. Oggi si registra con un’app, ieri si trasmetteva da una soffitta con un trasmettitore autocostruito. Ma il gesto è lo stesso: uscire dalla posizione passiva dell’ascoltatore e assumere quella attiva del soggetto che parla. Il podcast è fatto dalla stessa urgenza di dire che animava le radio libere. La stessa voglia di incidere nel dibattito, di costruire comunità, di aprire discorsi che altrove vengono chiusi troppo in fretta.

Certo, i contesti sono cambiati. Ieri c’erano i movimenti, oggi le reti e gli algoritmi. Ieri c’erano gli spazi occupati, oggi gli spazi digitali. Ieri si trasmetteva per il quartiere, oggi si carica su Spotify. Ma la dinamica è affine: quando la società entra in una fase di riorganizzazione profonda, e i media tradizionali arrancano dietro la complessità, c’è sempre qualcuno che accende un microfono e comincia a parlare. Il bisogno è lo stesso: prendere parola in una società che troppo spesso parla a sé stessa in modo autoreferenziale. Non perché si abbia una verità in tasca, ma perché tacere – oggi come allora – è il modo più rapido per sparire.
Le democrazie si misurano anche da questo: da quanto spazio lasciano alle voci non istituzionali. E da quanto sono capaci di ascoltarle senza doverle prima normalizzare. Le radio libere furono una risposta creativa all’egemonia del palinsesto. I podcast indipendenti sono una risposta disordinata, creativa, ma necessaria, alla dittatura dell’algoritmo.
Forse non cambieranno il mondo. Ma stanno già cambiando il modo in cui lo raccontiamo. E in fondo, in ogni democrazia che voglia dirsi tale, questo è il primo passo per provare a cambiarlo davvero.

 

Avatar photo

Nato nel 1995, vivo a Trieste, laureato in Cooperazione internazionale. Consulente per le relazioni pubbliche e istituzionali, ho una tessera di partito in tasca da 11 anni. Faccio incontrare le persone e accadere le cose, vorrei lasciare il mondo meglio di come l'ho trovato. Appassionato di democrazia e istituzioni, di viaggi, musica indie e Spagna