Nel mondo alla rovescia in cui viviamo da qualche anno, il ventre molle dell’Europa non è l’Italia, come riteneva Churchill, ma alcuni insospettabili paesi dell’Europa settentrionale. Senza voler lanciare allarmi incontrollati, ho modo di temere che in questa fase il ventre molle si trovi più precisamente in Danimarca. Ho lavorato per quasi un decennio nel centro studi affiliato al Ministero degli esteri e della difesa danese. Pressata ad ovest dagli Stati Uniti che minacciano la presa della Groenlandia e ad est dai droni di possibile provenienza russa, la Danimarca è in questo momento uno dei paesi più vulnerabili d’Europa. Se non dal punto di vista strettamente militare, quantomeno da quello psicologico.

Le incursioni russe degli ultimi giorni in Polonia, Estonia e, presumibilmente in Danimarca, vengono giustamente interpretate come modi di verificare la nostra capacità di reazione e tenuta di nervi. Non che Mosca abbia avuto, in passato, reticenze a testare in modo più esplicito le nostre resistenze. Si ricordi la famigerata linea rossa minacciata da Obama contro l’utilizzo di armi chimiche in Siria, puntualmente oltrepassata da Mosca senza che nulla accadesse. Ma questi sconfinamenti sono le tattiche di quella che viene comunemente chiamata guerra ibrida: termine composito che abbraccia azioni disparate dalla disinformazione, ai sabotaggi infrastrutturali, all’uso strumentale di migranti fatti ammassare ai confini, alle incursioni di questi giorni.

Nulla di nuovo sul fronte occidentale, si dirà. Ma proprio per questo qualche settimana fa Mattarella evocò il 1914 e lo scoppio della Prima guerra mondiale. Non per corsi e ricorsi storici, ma per rimarcare come errori maldestri e imprudenze abbiano portato ad una concatenazione di eventi: “siamo su un crinale in cui anche senza volerlo si può scivolare in un baratro di violenza incontrollata,” disse.
Istintivamente associamo i placidi danesi alla calma, alla civiltà e al pacifismo scandinavo. Ma sulla Russia c’è stata, fin dalla Guerra Fredda, una bellicosità e impulsività atipica. Questa in parte si spiega con una forte propensione valoriale nella politica estera che ha portato la Danimarca, più di altri occidentali, a difendere in modo militante diritti umani e civili. Ricordo per esempio Copenhagen non avere nessuna remora ad ospitare nel primi anni 2000 il congresso mondiale ceceno in piena guerra nel Caucaso e fra le proteste fragorose di Mosca. Oggi, la Danimarca è fra i più convinti sostenitori dell’Ucraina, secondi solo all’Estonia in termini di aiuti militari in proporzione al prodotto interno lordo.

Più banalmente, il motivo di questo agguerrimento è stata la distanza geografica. Copenhagen, a differenza dei paesi ex Sovietici o della Finlandia, non confina con la Russia e si è storicamente sentita protetta o sicura di adottare una postura più spavalda. Queste certezze da tempo non esistono più. Già all’inizio della guerra in Ucraina erano stati avvistati grandi vascelli “scientifici” battenti bandiera russa aggirarsi nelle acque intorno a Copenaghen. La Russia oggi considera la presenza militare nell’isola danese di Bornholm, a poco più di 300 km in linea d’aria dall’enclave russa di Kaliningrad, come una minaccia alla sua sicurezza. Le poche centinaia di euro necessarie per far volare un drone hanno definitivamente azzerato questo presunto vantaggio geografico.

Fortunatamente i checks & balances del multilateralismo funzionano ancora bene a Copenaghen. È altamente improbabile, per realismo e tradizione, che la Danimarca risponda alle provocazioni in modo unilaterale e senza consultarsi con i partner. Ma non possiamo permetterci il lusso di sottovalutare o escludere reazioni scomposte o scatti di nervi causati dal livello di pressione al quale è sottoposto questo piccolo paese.