Ricordate il principio secondo il quale un magistrato deve non solo essere, ma anche apparire terzo e imparziale? Ricordate l’impostazione secondo la quale un magistrato deve, di conseguenza, tenersi “a distanza di sicurezza” dalla politica? Bene, adesso dimenticate tutto e fate come se la Costituzione, la Consulta e il fior fiore dei giuristi di mezzo mondo non avesse mai sostenuto certe tesi. A stravolgere quello che sembrava un cardine della cultura giuridica e democratica del nostro Paese è stato il plenum del Consiglio superiore della magistratura attraverso il provvedimento con cui ha archiviato il caso Catello Maresca.
Al sostituto procuratore generale di Napoli si contestava il fatto di aver intessuto relazioni, verificato le condizioni e cercato sostegno in vista di una sua possibile candidatura a sindaco della città, pur essendo ancora in servizio. In sua difesa il consigliere laico Alessio Lanzi ha chiarito che «è sua (cioè di Maresca, ndr) totale facoltà, anzi diritto, presentarsi» alle elezioni e che questo diritto implica l’esercizio di tutte le «attività prodromiche» (cioè incontri con esponenti politici e accordi per definire le modalità dell’eventuale discesa in campo). È andato oltre l’indipendente Nino Di Matteo, secondo il quale il fatto che Maresca partecipi a dibattiti e ritiri premi non può «connotare negativamente» la sua attività di magistrato e il sostituto procuratore generale «non era tenuto a confermare o a smentire» le indiscrezioni sulla sua presunta candidatura.
Che cosa significa tutto ciò? Che il magistrato è un cittadino come tutti gli altri e, come tale, gode del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e di candidarsi alle elezioni: un principio sacrosanto, ci mancherebbe. Ma il voto del plenum del Csm fa capire anche che sui magistrati non gravano obblighi o doveri particolari in ragione della delicata funzione che svolgono, come per lungo tempo siamo stati abituati a credere. Quindi, un giudice può fare politica liberamente e costruire altrettanto liberamente la propria candidatura persino mentre è in servizio e nella stessa città che qualcuno vorrebbe fargli amministrare. Non solo: il Csm non si premura nemmeno di chiarire che cosa un magistrato debba fare in concreto per essere e apparire terzo e imparziale, necessità ribadita in tempi non sospetti dalla Consulta. Ecco perché la decisione del plenum è uno schiaffo al dettato costituzionale oltre che alle norme deontologiche che impongono alle toghe di tenersi “a distanza di sicurezza dalla politica”.
In tutta questa vicenda emergono due paradossi. Il primo: proprio nel momento in cui è travolto dagli scandali legati alle nomine dei procuratori e agitata dalle rivelazioni dell’ex pm Luca Palamara, il Csm rivendica per i magistrati il diritto a fare quasi tutto ciò che desiderano – incluso quello di fare politica mentre sono ancora in carica – anziché suggerire una linea di condotta più prudente, equilibrata, morigerata. Il secondo paradosso? Mentre a un pm in servizio si concede di incontrare i leader dei partiti in vista della sua possibile candidatura a sindaco, si mettono sotto la lente d’ingrandimento e si sanzionano i rapporti – spesso perfettamente leciti – tra migliaia di altri cittadini. E a farlo chi è? La classe di magistrati più discutibile e delegittimata che si sia mai vista in Italia.
