Quello che si conclude oggi è un decennio travagliato per Napoli. Nel 2010 la città era nel pieno dell’emergenza rifiuti e, davanti al contemporaneo crollo della grande industria manifatturiera e all’incipiente crisi dei partiti tradizionali, i napoletani scelsero di sperimentare un diverso modello politico-amministrativo, animato da un forte sentimento di rivalsa e destinato a sfociare nella retorica populista e demagogica alla quale il sindaco Luigi de Magistris ha successivamente abituato la comunità. Quel modello ha intercettato lo sviluppo del movimento turistico, alimentando un’economia basata sull’accoglienza e su un generale clima di svago. La pandemia e le mareggiate hanno definitivamente travolto questo doppio modello, politico-amministrativo ed economico, evidenziando la necessità per i napoletani di ripartire da zero ancora una volta. Ed è proprio questo il punto: sebbene la crisi sanitaria ed economica imponga di ripensare spazi e strategie, nonostante manchino pochi mesi alle elezioni comunali, Napoli si presenta a questo fondamentale appuntamento con la storia senza nomi, progetti e idee.

Ha ragione Mariano D’Antonio che, dalle pagine di Repubblica, sottolinea la necessità di salvare la città da un «declino forse irreversibile» e mette in guardia dal «vizio della passività collettiva» che troppo spesso ha spinto la comunità partenopea a puntare sulla «ricerca del sussidio come soluzione alle difficoltà». In un fase come quella attuale, è indispensabile aprire un dibattito e stimolare il confronto sulla riprogettazione della Napoli del futuro. Ciò che colpisce, invece, è un dinamismo solo superficiale in una città che sembra aver “inserito il pilota automatico” per avviarsi lentamente e mestamente verso un destino già scritto da altri.

Prendiamo il Partito democratico: qualche mese fa ha avviato una conferenza programmatica per Napoli. Che cos’è rimasto delle proposte formulate in quella sede? Poco o nulla. E adesso i dem non riescono a far altro che temporeggiare: dalla segreteria partenopea non arriva l’indicazione di un programma o di un candidato in attesa e nella speranza, probabilmente, che ad assumere questa responsabilità siano i vertici nazionali, oggi troppo impegnati a valutare l’opportunità di un’alleanza col Movimento Cinque Stelle. Anche il centrodestra cittadino – o, meglio, ciò che ne rimane – aspetta. Chi? Probabilmente Catello Maresca, il magistrato che soprattutto Forza Italia vorrebbe vedere alla guida di Palazzo San Giacomo e che, a sua volta, continua a sfogliare la più classica delle margherite. E gli epigoni di de Magistris? E le forze riformiste? E la società civile che pure ha manifestato segni di vitalità negli ultimi mesi? Chi o che cosa aspettano per mettere in campo le rispettive idee per la Napoli del futuro?

Tutto ciò restituisce l’immagine di una città che attende – anzi, subisce – il proprio destino. E che, di conseguenza, rischia di essere abbagliata dalla meteora di turno come accadde dieci anni fa, quando i napoletani scelsero de Magistris per mettersi alle spalle una stagione politica culminata nell’emergenza rifiuti e nella crisi economica, salvo poi pentirsene amaramente. Ecco, non si può e non si deve commettere lo stesso errore: il futuro non va atteso né subito, ma propiziato, costruito, programmato.

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.