In premessa alla riflessione credo sia giusto e doveroso innanzitutto denunciare e condannare il brutto gesto di alcuni (tifosi?) italiani presenti lunedì allo stadio, probabilmente gli stessi che lo scorso anno al grido di duce-duce girarono indisturbati per Budapest vandalizzando alcuni pub, che si sono girati di spalle all’inno israeliano. Il gesto sa molto di antisemitismo e molto poco di pace. E già questo basterebbe a far riflettere i molti che chiedevano a gran voce che l’Italia non disputasse la gara in calendario contro Israele.

Esclusioni sportive per motivi politici

In conseguenza della partita giocata l’altroieri e in vista del ritorno del 14 ottobre a Udine, si è tornati a discutere con insistenza di esclusioni sportive per motivi politici: c’è chi chiede la sospensione di Israele dalle competizioni internazionali, così come in passato era accaduto con Russia e Bielorussia. È un tema complesso, che tocca corde profonde – la guerra, i diritti umani, la giustizia – ma che spesso dimentica un elemento fondamentale: a pagare il prezzo delle esclusioni non sono i regimi, bensì gli atleti e i popoli.

Il caso Sabalenka

Prendiamo il caso di Aryna Sabalenka, attuale numero uno al mondo nel tennis femminile e vincitrice degli US Open. È bielorussa, e dunque proviene da un Paese governato da un dittatore come Aleksandr Lukashenko, storico alleato di Putin. Eppure Sabalenka non è il volto del regime: è il volto dello sport, del talento, della dedizione. Se fosse stata esclusa per motivi politici, oggi il tennis avrebbe perso una delle sue campionesse più luminose. E Lukashenko? Avrebbe continuato indisturbato a reprimere oppositori e negare diritti.

Lo sport non rappresenta il governo

Molti dimenticano che lo sport rappresenta un popolo, non un governo. Il principio dell’autonomia dello sport – sancito dalle Carte olimpiche – nasce proprio da qui: gli atleti non sono strumenti del potere, anche se i regimi autocratici spesso tentano di strumentalizzarli, ma sono rappresentanti di un’identità collettiva. Quando si invoca l’esclusione di una nazionale o di singoli sportivi per motivi politici, si commette un doppio errore: si alleggerisce la coscienza delle istituzioni politiche internazionali e dei governi chiamati a intervenire e al tempo stesso si punisce chi non ha colpe.

Gli altri

Se davvero volessimo applicare il principio dell’esclusione in base alla violazione dei diritti umani, alle persecuzioni o alle guerre, dovremmo allora bandire anche squadre provenienti da Paesi come Iran, Arabia Saudita, Cina, Corea del Nord, Turchia… e l’elenco sarebbe lunghissimo. Un paradosso insostenibile, che minerebbe le fondamenta stesse del sistema sportivo. È bene ribadirlo: lo sport non è apolitico né neutrale, perché porta già in sé un messaggio profondamente politico di pace, cooperazione e dialogo tra i popoli. È proprio questa sua dimensione a essere oggi in pericolo. Strumentalizzarlo per “punire” interi Paesi rischia di trasformarlo nell’ennesimo campo di battaglia delle guerre geopolitiche di regimi e governi.

Le sanzioni non fermano alcuna guerra

Le sanzioni sportive, finora, non hanno fermato nessuna guerra. La prova è che quella russa prosegue, mentre le stesse sanzioni sono state nel tempo attenuate consentendo agli atleti di gareggiare senza bandiera. Ma a pagare sono stati proprio loro: chi vive di sport e l’idea stessa dello sport. Gli atleti non sono complici solo perché non protestano pubblicamente: chi vuole è libero di farlo, chi non vuole è libero di non farlo. Nessuno “deve”. E non credo che l’impegno civile di uno sportivo si misuri soltanto in una frase detta in una intervista. Tutti gli atleti, semplicemente scendendo in campo, sono ambasciatori di pace.

Lasciare allo sport la sua voce

In definitiva: lasciamo allo sport la sua voce, e facciamolo parlare con il linguaggio che gli è proprio – quello dell’inclusione, della competizione leale, della fratellanza universale. Come ha detto qualche sera fa Rino Gattuso: “Col calcio si fanno felici i bambini”. Con le guerre, invece, quegli stessi bambini diventano vittime innocenti. E quelle guerre non si fermano certo sospendendo partite di calcio o ciclisti, come accaduto per la Vuelta in Spagna in modo piuttosto vergognoso. Quando finirà la notte della ragione – speriamo presto – sogniamo un giorno di ‘vedere una partita di calcio tra Israele e Palestina. Vorrebbe dire che l’idea, oggi ancora irrinunciabile, di costruire due Stati e due popoli capaci di convivere pacificamente sarà stata finalmente realizzata. Vorrebbe dire che l’odio avrà perso la partita.

Fabio Appetiti

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