«Difendo per nomina d’ufficio. Enunciata, così, la mia legittimazione in questo dibattito, debbo subito dichiarare che la specificazione “d’ufficio” è da me considerata una mera formalità processuale. Chi vi parla, dunque, è solo e soltanto il difensore, nella sua accezione e nella sua estrinsecazione più ampia, nella pienezza delle sue prerogative e nella tensione del più doveroso impegno professionale. Credo fermamente nel principio della difesa inviolabile sancito dalla Costituzione come garanzia dell’interesse della collettività al processo giusto che si realizza soltanto nella dialettica delle parti, cioè nel regolare contraddittorio “ad armi pari” fra accusa e difesa. Il diritto al processo giusto deve essere, dunque, riconosciuto a tutti – indistintamente – parendomi aberrante, oltre che moralmente irricevibile, un processo differenziato a seconda delle categorie degli imputati o dei reati che a costoro vengono contestati. Dico questo perché già si profilano all’orizzonte le avvisaglie, cupe e gravide di barbarie, dei cosiddetti “processi alternativi”. E non è senza significato che, proprio da questo banco ed in questo processo, un difensore tout court, quale ho l’onore di essere e di sentirmi, affermi che l’autentica risposta civile alla violenza ed al terrorismo consiste nel garantire un processo giusto, e quindi il pieno contraddittorio, anche a chi si è posto, di fronte all’ordinamento, in termini di ribellione: questo è lo Stato di diritto, praticato e non recitato; questo è ciò che distingue la civiltà dalla barbarie. Non sono e mi rifiuto di essere, perciò, un “convitato di pietra».

Le parole pronunciate nel 1983 dall’Avv. Vittorio Battista durante il processo per la strage di via Fani sono state la lente attraverso cui, da responsabile dell’Osservatorio U.C.P.I. Difesa d’Ufficio “Paola Rebecchi”, ho assistito alle udienze dibattimentali del c.d. Processo Regeni, iniziato in ragione alla sentenza costituzionale n. 192/2023 che ha aggiunto all’art. 420-bis, co. 3, c.p.p. una nuova ipotesi di “assenza non impeditiva”, bilanciando il diritto di difesa degli imputati con il diritto all’accertamento giudiziale della persona che del reato di tortura è stata vittima.

In uno Stato di diritto, però, le parti offese non hanno diritto alla celebrazione “di un processo” ma “del Processo”, dovendo il perseguimento delle condotte criminose, anche se efferate e ignominiose, passare attraverso il rispetto delle regole del giusto processo regolato dalla legge, ossia nel pieno ed effettivo contraddittorio tra le parti. Proprio su tale principio si fonda la recente ordinanza di rimessione alla Consulta emessa dalla Corte d’assise, che, in accoglimento dell’eccezione di costituzionalità sollevata dai difensori d’ufficio, ha preso atto della mancanza di un loro qualsiasi contatto con i rispettivi assistiti e rilevato che le uniche parti processuali a cui è stata consentita l’iniziativa probatoria sono state il PM e le parti civili. L’attività defensionale, invece, si è interamente esaurita nella valutazione critica, e puramente cartolare, dell’attività investigativa, senza possibilità di contraddire concretamente sulla bontà, correttezza e univocità del dato probatorio dedotto dall’accusa, del quale ha potuto solamente ricercare ed evidenziare le eventuali contraddizioni intrinseche.

Tale deficit di contraddittorio reale e di difesa si è conclamato, diventando ineludibile, quando gli avvocati d’ufficio si sono trovati nell’impossibilità di confutare efficacemente, tramite propri esperti, le conclusioni del perito traduttore nominato dal Tribunale, il quale, dopo un primo elaborato, ne ha stilato un secondo significativamente distinto dal precedente, aderendo ai rilievi critici dei consulenti dell’accusa.

Pertanto, la Corte di assise ha ritenuto irragionevole che l’ordinamento, dopo aver creato un meccanismo eccezionale per consentire la celebrazione del c.d. processo Regeni, in deroga agli ordinari presupposti del processo in assenza, abbia poi omesso di apprestare gli strumenti per garantirne la correttezza, soprattutto in un caso di tale gravità e complessità in cui gli interessi della giustizia esigono una difesa tecnicamente attrezzata, che non può essere privata della possibilità di nominare un consulente, a fronte di controparti che ne dispongono. È stata, quindi, riscontrata una violazione del diritto della difesa a confutare adeguatamente ogni elemento di prova a carico, nonché alla parità delle parti, confermando come quest’ultima non sia un principio astratto, ma vada misurata sulla concreta possibilità per la difesa di contrapporre alle tesi dell’accusa argomentazioni di pari livello tecnico.

Per tali ragioni, da un lato, merita un plauso la decisione della Corte romana di rimettere alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 225, co. 2, c.p.p. in relazione agli artt. 102 e 107, co. 3, lett. d), del T.U. Spese di Giustizia per la violazione del diritto di uguaglianza, del diritto di difesa e dei principi del giusto processo. Dall’altro, un encomio va ai Colleghi Armellin, Pollastro, Sarno e Ticconi che, designati d’ufficio, si sono sempre rifiutati di essere “convitati di pietra”, nella convinzione che i diritti inviolabili di difesa e di uguaglianza debbano costantemente governare il processo penale, per non ridurlo mai ad un simulacro a garanzie ridotte.

Fabio D'Offizi

Autore

Avvocato penalista Responsabile Osservatorio difesa d'ufficio UCPI