PARIGI

L’eco del discorso di Macron all’Onu non si placa. Il riconoscimento della Palestina da parte della Francia è un gesto di politica internazionale che agisce anche sulla politica interna. Emmanuel Macron lo ha presentato come un contributo alla pace e come riaffermazione del ruolo francese sulla scena mondiale. Ma questa scelta si inserisce in un contesto molto più complesso, dove pressioni diplomatiche, mobilitazioni sociali e tensioni identitarie si intrecciano con una questione delicata: l’antisemitismo nella sinistra francese.

Parlare di antisemitismo “a sinistra” significa muoversi su un terreno minato. La France Insoumise, guidata da Jean-Luc Mélenchon, è stata più volte accusata di alimentare questo clima. Celebre il caso dell’affiche su Cyril Hanouna, giudicata da molti osservatori come ricalco di iconografie antisemite. Ancora più significativa la posizione del leader di LFI, che ha definito l’antisemitismo in Francia «residuale» e «assente nei raggruppamenti popolari». Una minimizzazione che ha indignato gran parte della comunità ebraica, per la quale invece l’antisemitismo rimane una minaccia concreta. I dati parlano chiaro: secondo un sondaggio Ifop, il 92% dei cittadini francesi di confessione ebraica ritiene che LFI contribuisca alla crescita dell’antisemitismo. È un giudizio netto, che riflette non solo episodi specifici, ma una percezione diffusa: la sensazione che la sinistra radicale, nell’abbracciare una narrazione anticoloniale e filo-palestinese, confonda la critica allo Stato di Israele con l’ostilità verso gli ebrei in quanto tali.

Questo non significa che l’antisemitismo di sinistra sia paragonabile a quello dell’estrema destra storica, che per decenni ne ha fatto un tratto identitario. La Commission nationale consultative des droits de l’homme riconosce che il fenomeno è più circoscritto e meno virulento. Ma è proprio la sua forma ambigua a renderlo insidioso: slogan pronunciati nelle piazze, caricature che rievocano vecchi fantasmi, insulti rivolti a deputati socialisti etichettati come «sionisti» o «genocidari». Segnali che, messi insieme, alimentano un clima di sospetto e tensione. Il riconoscimento della Palestina da parte della Francia si colloca dunque dentro questa cornice. Il governo ha voluto compiere un gesto forte sul piano internazionale, rispondendo alle richieste della comunità musulmana e alle pressioni di parte della sinistra, ma ha cercato di farlo senza legittimare derive pericolose. Macron ha messo le mani avanti, sottolineando che riconoscere la Palestina non significa «appoggiare Hamas o tollerare l’antisemitismo». Anche se, per molti, l’effetto indiretto della decisione rischia di andare in quella direzione.

Si muovono sulle uova gli equilibri tra le comunità musulmane ed ebraiche del Paese. Le prime sono forti di circa 6 milioni di credenti, e la polemica che infuoca la Francia è oggi legata alla costruzione, a Strasburgo, della più grande moschea d’Europa. Distribuire dei no, dei sì e dei ni in parti uguali è diventata un’arte di governo. In questo senso, la vicenda dimostra come il conflitto mediorientale non sia mai soltanto un affare di politica estera per la Francia. È uno specchio in cui si riflettono fratture interne: la questione della laicità, la convivenza tra comunità diverse, la memoria delle persecuzioni e il timore del loro ritorno.

L’antisemitismo di sinistra, per quanto negato o minimizzato dai suoi protagonisti, resta un fattore che incide sul dibattito politico, costringendo il governo a misurare le parole con precisione millimetrica. La Francia ha scelto di riconoscere la Palestina – ufficialmente, per «riaffermare la sua vocazione universale e il suo ruolo di potenza mediatrice». Ma le vere ragioni stanno nella necessità di tenere insieme capre e cavoli, di non scontentare – e anzi, di tenersi vicini – i milioni di elettori musulmani che risulteranno preziosi nel duello che si prospetta alle prossime presidenziali, nella primavera 2027. Manca un anno e mezzo: una volata rispetto alla storia.

Giorgio Denicolai

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