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Giustizia, Taradash (Comitato Giustizia SÌ): “Separare le carriere non è un colpo alla democrazia. È un atto di chiarezza”
Da oltre venticinque anni la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri viene riconosciuta come una necessità da gran parte della dottrina, della politica e persino da settori della magistratura stessa. Eppure, per un quarto di secolo, non si è mai riusciti a tradurre questo consenso astratto in una riforma effettiva.
È uscito su Critica Liberale, periodico che si definisce “azionista” un appello per il no alla legge sulla separazione delle carriere. Il testo solleva timori che meritano attenzione, ma giunge a conclusioni che non condivido. Non perché la riforma sia perfetta o immune da rischi, bensì perché confonde pericoli ipotetici con danni attuali, e finisce per trasformare il legittimo esercizio della prudenza costituzionale in un argomento a favore dell’immobilismo.
Da oltre venticinque anni la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri viene riconosciuta come una necessità da gran parte della dottrina, della politica e persino da settori della magistratura stessa. Eppure, per un quarto di secolo, non si è mai riusciti a tradurre questo consenso astratto in una riforma effettiva. Il risultato è un’anomalia tutta italiana: un pubblico ministero che è parte nel processo, ma appartiene allo stesso ordine del giudice; che esercita l’azione penale, ma gode dello stesso statuto di indipendenza del giudicante; che contribuisce alla formazione della cultura giurisdizionale del Paese, senza essere sottoposto a un assetto istituzionale chiaramente distinto.
È difficile sostenere che questo stato di cose sia neutro. Esso incide sulla percezione di imparzialità della giurisdizione, alimenta una commistione di ruoli che non ha equivalenti nei principali ordinamenti liberal-democratici e rende di fatto impossibile ogni seria riflessione sulla responsabilità dell’azione penale.
L’appello di Critica Liberale paventa che la riforma apra varchi pericolosi, soprattutto perché rinvia a leggi ordinarie la disciplina di aspetti delicati come la composizione degli organi di autogoverno e dell’Alta Corte disciplinare. È un’obiezione non infondata, e va presa sul serio. Ma non può diventare un veto assoluto a ogni riforma costituzionale. Ogni Costituzione, infatti, vive di un equilibrio tra norme rigide e norme flessibili; e nessuna democrazia liberale può pretendere di sterilizzare in anticipo ogni possibile abuso futuro, rinunciando per questo a correggere storture presenti e riconosciute.
Il rischio evocato — una politicizzazione indiretta del pubblico ministero attraverso interventi successivi di legge ordinaria — non è oggi scritto nella Costituzione, né discende automaticamente dalla separazione delle carriere. È un rischio potenziale, che richiederà vigilanza, opposizione politica, controllo costituzionale. Ma non è paragonabile al danno certo prodotto da un sistema che da decenni evita di scegliere, rifugiandosi in soluzioni ibride che non funzionano.
Non è corretto, inoltre, sostenere che la separazione delle carriere sia una riforma “pleonastica” perché la legge Cartabia avrebbe già azzerato l’osmosi tra funzioni. La rigidità dei passaggi non elimina il dato fondamentale: giudici e pubblici ministeri continuano a appartenere allo stesso ordine, a condividere organi di autogoverno, percorsi culturali e logiche di carriera. La separazione non è solo funzionale: è istituzionale, simbolica, strutturale. Serve a chiarire ruoli, responsabilità e percezioni, non a demonizzare una parte della magistratura.
Soprattutto, la separazione delle carriere non equivale alla subordinazione del pubblico ministero all’esecutivo. La riforma non abolisce l’obbligatorietà dell’azione penale, non introduce una discrezionalità politica dell’accusa, non lega il PM al ministro della Giustizia. Attribuirle questi effetti significa attribuirle contenuti che non ha. Se un domani una maggioranza vorrà trasformare il PM in un organo governativo, dovrà farlo apertamente, assumendosene la responsabilità politica e costituzionale. Non potrà farlo per automatismo.
Una democrazia liberale matura non si difende congelando le sue istituzioni per paura di possibili derive, ma costruendo equilibri più chiari e più controllabili. La separazione delle carriere va in questa direzione: non rafforza il potere dell’esecutivo, ma riduce l’ambiguità del giudiziario; non indebolisce la giurisdizione, ma la rende più leggibile e più credibile agli occhi dei cittadini.
Per queste ragioni voterò SÌ. Non per cieca fiducia nel legislatore del momento, ma perché dopo venticinque anni di rinvii, il vero pericolo per la democrazia non è riformare: è continuare a non decidere.
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